Un posto di blocco nella notte, una foresta, una donna al volante, un’altra con il volto fasciato, un soldato americano che chiede con modi bruschi le loro identità e, soprattutto, pretende che la passeggera si levi le bende per identificarsi meglio, non sarà Eva Braun ma è meglio sapere chi sta rientrando in Germania all’indomani della fine della guerra.

Così inizia Phoenix, tratto dal romanzo Le retour des cendres di Hubert Monteilhet, settimo film di Christian Petzold, sceneggiato insieme al suo maestro, Harun Farocki, scomparso il 30 luglio scorso, e presentato a Roma nella sezione Gala.

Le due donne sono Lene, avvocato che lavora per l’Agenzia ebraica, incaricata di dare un’identità a vittime e carnefici dei campi di concentramento, e Nelly, la protagonista interpretata da Nina Hoss, l’attrice per eccellenza dei film di Petzold, cantante ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, con il viso devastato da una pallottola che le ha frantumato il naso e uno zigomo.

Phoenix, come detto, inizia con la richiesta di rendere nota la propria identità e così prosegue. Dopo l’intervento di ricostruzione del proprio volto, Nelly non ha più lo stesso viso. In realtà, a prescindere dall’apparenza, chi può essere la stessa persona dopo l’esperienza del lager? Di fronte a questa domanda, di memoria adorniana e arendtiana, le due donne, pur legate da un forte sentimento, sono agli antipodi.

Nelly è sopravvissuta alla disumanizzazione del campo di concentramento con la forza del ricordo, aggrappandosi al vissuto prima che accadesse il radicalmente nuovo. E ora che ne è uscita vuole tornare all’origine di quella memoria, al bozzolo dove crede sia custodita la sua felicità, che significa principalmente ritrovare suo marito Johnny, l’uomo che ama ancora perché è il simbolo di quel tempo mitico, anche se probabilmente fu proprio lui, tedesco non ebreo, a consegnarla ai nazisti per salvarsi.

Di contro, Lene, che non ha vissuto l’esperienza del lager, guarda indietro solo per un senso di giustizia, per ridare alle vittime e ai sopravvissuti ciò che gli è stato tolto. Più indietro (ma anche più avanti) non può guardare, perché significherebbe perdonare, tendere una mano verso chi tradì. Non ci si può permettere il lusso di cantare, di abitare nelle stesse case, di frequentare amici che si voltarono dall’altra parte, che fecero finta di non sapere e che ora non chiedono altro che farsi trascinare insieme nell’oblio, per non dovere rendere conto della propria vigliaccheria e, ancor peggio, della propria complicità.

Nelly, nonostante tutto, non vuole rinunciare a se stessa, e per sopravvivere continua a cercare suo marito con passo incerto ma comunque ostinato. Finché non lo trova. Johnny, però, non la riconosce, e lei non gli rivela la sua identità. Sembra finita, ma c’è una somiglianza che porta Johnny a riavvicinare la donna e a chiederle se vuole fingere di essere sua moglie in modo da riappropriarsi dei beni ai quali altrimenti non avrebbe accesso. Nelly accetta di partecipare a questa truffa, e qui il paradosso si compie. Quello che era un impedimento a ritrovare se stessa, sembra trasformarsi in qualcosa di possibile attraverso una farsa. Nella finzione si cerca la via d’accesso alla realtà, perché dopo l’esperienza del radicalmente nuovo forse si può lavorare solo con l’immaginazione. Johnny spiega a Nelly chi era Nelly. E Nelly, quasi gelosa di quella se stessa, ritrova fuggevolmente la memoria di un tempo perduto e la ragione per un tempo presente.

Lei è pronta per interpretare se stessa e per affrontare il mondo esterno. Fino a quel momento, tutto si è svolto nello scantinato dove abita Johnny, luogo isolato al confine con le rovine che circondano e assediano la nuova umanità. Se finisse in questo modo, e non aggiungiamo altro perché il film uscirà prossimamente grazie a BIM, sarebbe la vittoria dell’attimo sulla vita, del momento sulla storia. Ma non è così semplice. L’importanza di un film come Phoenix sta nel suo essere profondamente dialettico, nell’uso dei colori e delle luci che mescolano la realtà e la finzione, e sta nel suo non attingere a immagini didascaliche e a riferimenti del senso comune, nella capacità di destreggiarsi tra l’indicibile e la retorica che tutto appiattisce.