A mezzanotte in punto Bruxelles esplode di gioia. Un paese attraversato da linee di frattura etniche, religiose, linguistiche apparentemente inconciliabili pare aver trovato il suo collante in una squadra di calcio che ben rappresenta la composizione sociale del Paese. Già durante la giornata, l’attesa per la partita dei Red Devils aveva relegato in secondo piano le altre notizie del giorno: il Consiglio dei capi di Stato e di governo europei a Ypris, città simbolo della prima guerra mondiale, l’estradizione dalla Francia di Mehdi Nemmouche, l’uomo accusato di aver ucciso quattro persone al Museo Ebraico alla vigilia delle elezioni, figuriamoci la manifestazione europea degli immigrati.
Durante la partita, un clima da coprifuoco. Per le strade solo il vociare delle telecronache, davanti ai locali della movida centinaia di tifosi tentano di carpire brandelli di partita da tv e maxischermi, alle halles di Saint-Gery, antico mercato monumentale trasformato in centro culturale, alcuni altoparlanti messi da un pub diffondono nell’etere gli echi dello stadio. Poi, la festa. Le strade che si gonfiano di gente, i caroselli di auto che si incrementano man mano che dalle banlieue i tifosi si precipitano al centro, le bandiere: sistemate a mo’ di bandana ad avvolgere teste e volti, arrotolate sul corpo, sventolate, distese sui cofani delle macchine. Bianche e verdi. I colori dell’Algeria.
Dai quartieri arabi di Molenbeeck e Anderlecht, dal “coin du diable” delle ex fabbriche e da Schaerbeek, la gioia incontenibile dei maghrebini dilaga nel centro della città e si mescola con la festa dei belgi. La musica raï la fa da padrona, e per una notte Stromae, il cantante figlio di un ruandese e una fiamminga diventato l’idolo dei giovani, è messo in soffitta. Qualcuno sospetta che molti marocchini abbiano fatto il tifo per l’Algeria, nonostante il leader della squadra del Belgio si chiami Marouane Fellaini ed è il prototipo del perfetto oriundo. Ma qui, nella capitale delle contraddizioni europee, tutto si mescola. In un paese giovane, che ha fondato la sua rinascita dal dopoguerra sull’immigrazione, in cui la “belgitudine” si afferma su una negazione (i belgi non sono francesi, non sono olandesi, non sono tedeschi, etc.) e l’aggettivo “belge” si somma sempre a un secondo, “marocaine”, “italien”, fino ai “belgo-belge”, belgi bianchi da almeno tre generazioni, può accadere che si faccia il tifo per più di una nazionale di calcio. Per le strade le due feste, quella algerina e quella belga, si sommano e a volte si fondono. Non come a Parigi, dove la gioia degli ex colonizzati nella notte si è trasformata in rabbia e scontri, dalle parti di Barbès.

Siciliani a Molenbeeck

Una curiosa ironia della sorte ha voluto che Belgio e Algeria giocassero nello stesso girone. Ho guardato lo scontro diretto in un antico bar di Molenbeek, gestito da una famiglia di siciliani arrivati qui da Agrigento quarant’anni fa. Il locale è un pezzo di Little Italy fuso con la realtà araba del quartiere: tavolini in legno, anziani che giocano a carte, atmosfera fumosa da baretto di paese meridionale, caffè come dio comanda, maxischermo sintonizzato su Rai Uno, pubblico interamente algerino. Un canale divide il centro della città da Molenbeek e dalla vicina Anderlecht, più a sud. Sono i quartieri dell’immigrazione maghrebina, come pure Schaerbeek, dietro la stazione nord. In questi giorni la bandiera biancoverde con la mezzaluna rossa la vedi ovunque: nel giardino pubblico sotto un palazzo che farebbe sfigurare le Vele di Scampia, alle finestre e ai finestrini delle auto. I parchi sono molto diffusi nelle aree più popolari di Bruxelles, e in ognuno c’è un campetto da calcio. Le porte hanno una singolare caratteristica: non hanno le reti ma delle sbarre.
E’ una storia strettamente legata alle vicende migratorie, quella dei campi di calcio belgi. Alla fine degli anni ’80, di fronte a un’imponente ondata migratoria dall’Africa, il governo pensò che un paese piccolo e dalle radici fragili come il Belgio necessitasse di uno strumento di integrazione rapido e facilmente comprensibile da tutti, e così nel piano nazionale sull’immigrazione fu inserito il footbal de rue, che nel volgere di un trentennio sfornerà talenti come Fellaini, Dembélé, Vandenborre e Kompany (quest’ultimo nel 2013 comprerà anche un club di calcio di strada), tutti figli di immigrati.
E’ nelle vie dei quartieri più popolari di Bruxelles che sono nate le premesse dei successi calcistici, ed è forse per questo che nella sua multietnica équipe riescano miracolosamente a riconoscersi tutti, dai figli della diaspora congolese che hanno eletto il loro idolo in Romelo Lukaku ai “belgo-belge” da più di tre generazioni. Persino il leader della Nuova Alleanza Fiamminga, destra liberista e separatista appena più moderata e presentabile degli xenofobi del Vlaams Belang, il sindaco di Anversa e papabile neopremier Bart de Wever interpellato in merito ha risposto di tenere per il Belgio perché “è la squadra al mondo in cui giocano più fiamminghi”.
Ho chiesto al proprietario del bar siciliano di Molenbeek per chi facesse il tifo: “Per il Belgio e per l’Italia. Siamo qui da tanti anni, torniamo spesso nel nostro Paese ma non ci troviamo più a nostro agio. La mentalità è cambiata, mentre noi siamo rimasti come quando siamo partiti”, ha affermato senza essere sfiorato dal dubbio che una vita trascorsa in Belgio possa aver influito sul suo modo di vivere e di pensare. Il proprietario di un altro bar italiano lungo la stessa strada, un pugliese, poco prima mi aveva detto più o meno la stessa cosa, aggiungendo con una punta di intolleranza: “Speriamo che non vinca l’Algeria stasera altrimenti è un casino, io questi li conosco bene”.
Naturalmente, l’affetto è ricambiato: i vecchi italiani sono perfettamente integrati e considerati quasi alla stregua dei “belgo-belge”. Di recente, un film ha fatto il pieno nei botteghini: si intitola Marina ed è la storia del cantante Rocco Granata, nato a Figline Vegliaturo in provincia di Cosenza e popolarissimo nelle Fiandre. In passato, analoghe fortune hanno riguardato potrebbero scomodare un altro chansonnier, Salvatore Adamo, o il calciatore Vincenzino Scifo. A Charleroi e a Liegi, ex città minerarie e siderurgiche, l’orgoglio italiano è stato castrato dalle pessime prestazioni con il Costarica e l’Uruguay, ma per tutti rimane una seconda possibilità con il Belgio. Comunque vada, alla ripresa del campionato le curve si riempiranno di “tifosi”, come vengono chiamati gli ultras delle due squadre.

Caffè italiano al Luxembourg

Difficile che un vecchio e un nuovo italiano si incrocino nel quartiere europeo. Probabile che neppure si riconoscano e si capiscano. L’emigrazione popolare del dopoguerra, che parla un italiano storpiato in decine di dialetti locali congelati al momento della partenza, è tutt’altra cosa da quella degli ultimi anni, fatta di giovani in cerca di futuro, ricercatori in fuga e persone che a vario titolo lavorano nelle istituzioni comunitarie. Il principale punto d’incontro, nella pausa pranzo, è al Caffè italiano in una traversa della piazza del Luxembourg, ed è come stare in un bar di via del Corso a Roma. Alla libreria La Piola si va anche solo per un aperitivo e attraverso mailing list si organizzano gruppi d’acquisto di prodotti dall’Italia.
Ogni comunità di europei, su tutti gli italiani e gli spagnoli, prova a riprodurre, in sedicesimo, stili di vita e abitudini dei paesi di provenienza. In questi giorni di mondiali, il quartiere europeo è l’unico nel quale si fa fatica a respirare l’entusiasmo per il Belgio che c’è nel resto della città o l’euforia maghrebina di Molenbeek. “Gli europei vivono come in una bolla. Si frequentano fra loro, vanno tutti negli stessi locali, vivono in un quartiere separato, mandano i figli nella scuola per i funzionari dove possono studiare nella lingua madre, non hanno alcun contatto con il resto della città”, mi dice Jasmine Barahman, padre iraniano e madre romana, assistente parlamentare per il gruppo del Pd. Qualcuno sostiene che questo pezzo d’Europa nel cuore della capitale a maggioranza francofona di un Paese in cui il 60% delle persone parlano olandese è un po’ come il Vaticano a Roma: un mondo a sé.
Dal quindicesimo piano del Parlamento europeo si gode una vista invidiabile sulla città e sulla piazza intitolata a Solidarnosc, il sindacato protagonista del crollo del comunismo in Polonia. L’edificio è diviso in quattro blocchi, tenuti insieme da corridoi che si trovano al terzo piano, e in ognuno di essi alloggia una famiglia politica. Gli euroscettici (con i Cinque Stelle) hanno il loro palazzo, i socialisti (con le sinistre radicali) il loro, e così via. Ci sono una mensa comune, la sala stampa e un bar definito “mickey mouse” per via delle sedie colorate e con i poggiamani a sventola, dove si incontrano lobbisti e politici, lontano dal popolo e da orecchie indiscrete. Ogni parlamentare ha un ufficio che si compone di uno studio, una camera da letto e un bagno. In un angolo, una sorta di valigia in cui vengono messi i documenti da trasportare a Strasburgo, dove il caravanserraglio di deputati e assistenti si trasferisce per una settimana al mese senza che nessuno si adonti per gli sprechi o urli contro la “casta”. Il giovedì pomeriggio, appuntamento obbligato in piazza del Luxembourg fino a notte inoltrata: è il giorno dedicato all’happy hour, lo struscio è imponente, bigliettini di presentazione passano di mano in mano ed è questo il luogo in cui è più facile trovare lavoro, nella “bolla” del quartiere europeo.

A dare il benvenuto a Matonge è un graffito che elogia il fatto che in questo quartiere vivono cento nazionalità diverse. Un po’ come il confinante quartiere europeo, ma qui a predominare sono gli africani. Si racconta che i belgi in partenza per le colonie venissero a passeggiare per le stradine di questo quartiere per abituarsi a una vita radicalmente diversa. Oggi, la via d’Ixelles è un corso tormentato da grandi magazzini e negozi di telefonia. Il cuore vero di Matonge batte nelle stradine interne. Mi invitano a entrare in uno dei tanti coiffeur. Il barbiere non smette di suonare la chitarra e intona melodie afro una dietro l’altra. I suoi assistenti giocano a dama seguendo il ritmo.
Per entrare in sintonia con il cuore afro del Belgio, è opinione diffusa, bisogna non entrare in conflitto con lo spirito del quartiere, con i suoi tempi e lo stile di vita. La polizia non è ben vista e generalmente non si fa vedere. L’ultima volta è stato nel 2011, quando si è trovata a dover fronteggiare la rabbia dei sostenitori dell’opposizione congolese alla diffusione dei risultati elettorali. A partire dalla fine del colonialismo, nel 1960, è cominciato l’esodo di intellettuali e oppositori dalla ex colonia e oggi Matonge, che prende il nome dall’omonimo quartiere di Kinshasa, rappresenta l’ennesima contraddizione della capitale d’Europa: una little Africa a un passo dalle istituzioni che chiudono le frontiere e pattugliano il Mediterraneo.

Tifosi, non nazionalisti

Il Belgio è uno Stato federale: tutto è diviso in due, le istituzioni e persino i partiti politici e i sindacati. Sei milioni di persone parlano l’olandese, quattro il francese e 76 mila appartengono all’énclave tedesca. Dopo esser stato senza governo per 450 giorni consecutivi, molti ne hanno tratto la conclusione che si può vivere in una sorta di autogestione istituzionale, specie se l’economia è commissariata dalle istituzioni europee.
Commentando la situazione critica dell’editoria anche a queste latitudini, Frans Denissen, traduttore dall’italiano per diverse case editrici olandesi e una discreta conoscenza dell’Italia per aver insegnato all’Orientale di Napoli dove è rimasto stupito dal fatto che in pochi anni “sono triplicati gli iscritti ai corsi di olandese e di svedese”, mi segnala un’ulteriore faglia culturale: quella che passa tra le aree protestanti e quelle cattoliche. Nelle prime il tasso di lettura di libri e giornali è sensibilmente più alto e secondo lui esiste una spiegazione storica: “Nelle chiese protestanti i fedeli erano chiamati a leggere la Bibbia, in quelle cattoliche ad ascoltarla dal prete”.
Bruxelles è un concentrato delle contraddizioni del Belgio e dell’intero continente. In poche strade si concentrano il passato coloniale e la “bolla” europea che con i soldi che fa girare tiene in piedi economicamente la città, le migrazioni passate e quelle di oggi, i fiamminghi e i valloni, il nazionalismo più ottuso e la realtà multietnica di una nazione in cui il 20% della popolazione è nato all’estero. Nei giorni di Brasile 2014, ognuno tifa per la propria squadra e quasi tutti simpatizzano per i “diavoli rossi”, considerati il simbolo della rinascita di un Paese che molti nemmeno vorrebbero che esistesse. Un paradosso spiegabile solo con l’assenza di nazionalismo. Non potrebbe essere così, in fondo, anche per l’Europa?