UN’IMMENSA e misteriosa forza celeste» sta sgretolando l’Ungheria. I cattivi presagi si addensano, un’allegoria sciagurata e umoristica si sostituisce alla realtà. Al terrore immaginario due figure reagiscono con determinazione. La signora Pflaum fortifica negli anni il suo nido domestico, come si scava un sotterraneo per il tornado. L’altra, la signora Eszter, affronta i mutamenti con cervice burocratica (i poli dell’assolutismo borghese e statale). Entrambe sono invulnerabili, la maturità e stupidità della vita in una forma inarrivabile. Il mondo prima del crollo dell’URSS non risponde ad alcuna armonia; per la strada, nella spazzatura («nel museo ghiacciato della caducità»), si squinterna il clavicembalo ben temperato. Cerco confusamente di dire che il romanzo di Krasznahorkai è fra i maggiori del secondo Novecento.
L. Krasznahorkai, Melancolia della resistenza, trad. D. Mészáros, B. Ventavoli, Bompiani, pp. 346, €20

CAMUS HA 46 anni quando muore: il 4 gennaio del 1960 la vettura sulla quale sta viaggiando esce di strada a centocinquanta all’ora. Il giorno dopo intervengono sul Corriere d’Informazione Quasimodo, Gramigna e Buzzati. Nessuno di loro fa un ‘bel pezzo’, possiamo immaginarli mentre parlano in fretta all’orecchio del dimafonista. Eppure colpisce Buzzati, che rivive l’incontro con un Camus magnanimo, il viso comune da garagista. Per un vezzo incontenibile, troppe volte B. crede d’essergli apparso «imbecille», «provinciale» o «un verme». Una cochetteria non diversa si vede in Voce dietro la scena, dove Praz misura la propria fortuna contando le occorrenze di sé nella saggistica internazionale. Retoriche della deminutio. – L’esilio e il regno è stato l’ultimo libro di Camus e contiene almeno due racconti straordinari: L’adultera e Giona. Nel primo, memorabile è il quadro notturno sul deserto, con i grappoli di stelle che ruotano intorno alla donna sola. La luce che si allarga e restringe sugli altopiani del Sahara apre per lei uno spazio immane, l’unico posto in cui si possa ancora vivere.
A. Camus, L’esilio e il regno, trad. Y. Melaouah, Bompiani, pp. 176, €10

UNA SUITE di ragionamenti che non può chiamarsi romanzo né saggio, magari autofiction per i suoi rapporti con una verità personale, assicurata per certa, ma che resta tra le sostanze inaccessibili quando non illuminate da uno speciale tipo di invenzione, l’autoromanzo per l’appunto, cioè la forma più sofisticata di spergiuro. Il tema di Piccolo, espresso con insistenza attraverso cadenze saggistiche, è il tentativo di liberarsi dei retaggi di specie – quindi anche del Padre – o farli diventare compagni della parte sentimentale. Il libro srotola la doppia elica del DNA maschile: un nastro è virtuoso, leale, coraggioso, mentre l’altro è disobbediente, brutale, eslege. Tutto questo sarebbe manicheo e irrilevante, se il romanzo non fosse difeso da una sua precisa ambiguità, che è quella della forma. La salvezza è dunque correre nella menzogna, nell’ideazione di sé, solo che nessun lascito romanzesco, ovvero di conoscenza, ci viene veramente legato. Questo intrico si scioglie allegramente con un personaggio di Bontempelli: «Loro scrittori debbono essere o dei sentimentali o dei cinici, se no il pubblico si disorienta»
F. Piccolo, L’animale che mi porto dentro, Einaudi, pp. 246, €20

IL BRUTTO ha la fronte aperta, se non piena d’inventiva, il passo storto di una divinità olimpica. Tiene sempre buona compagnia: possiede infatti una conversazione formidabile, da cui escono senza tregua certe idee imprevedibili. Si dimostra l’amico più eloquente e il più attento ascoltatore – forse perché il Brutto è ciò che si lascia riempire da ogni discorso. È, in conclusione, supremo dialettico e offre più occasioni conoscitive del suo avversario, il Bello (che sta quieto sulle sue, come chi abbia già parlato). Così uno va al fondo di letture che non farebbe, del genere Il commissario Magrelli. In sessantacinque componimenti poetici, tra cui nove ‘casi risolti’, il poliziotto si scaglia contro i mali del mondo. Il divertimento si fa acre, l’intonazione civile mugugnante e vendicativa, diventa tirade, quindi semplice sbocco regressivo, lamentazione. Sotto il mantello di una poesia civile e svagata c’è la sprezzatura, il sussiego di chi ormai può scrivere qualsiasi cosa.
V. Magrelli, Il commissario Magrelli, Einaudi, pp. 76, €15