«La guerra vera non entrerà mai nei libri»: la frase è di Walt Whitman e viene spesso citata quando si discute la letteratura della Guerra Civile americana, anche se non sempre se ne coglie la portata. Leggendo infatti l’intero capoverso in cui l’affermazione compare, ci si accorge che se da un lato il poeta riprende un assunto vecchio perlomeno quanto Omero circa l’irrapresentabilità della guerra, dall’altro dichiara che se «gli anni futuri non potranno mai conoscere il bulicante inferno, e il nero sfondo diabolico» di quella guerra, «è meglio che sia così». Quegli orrori andavano dimenticati affinché la nazione ritrovasse la sua anima, anche se poi fu Whitman stesso uno dei primi a memorializzare il conflitto con la sua raccolta di poesie Drum Taps (Rulli di tamburo) del 1865.

La tensione tra il desiderio di dimenticare la guerra e il dovere di ricordarla, così come una netta consapevolezza dei limiti della parola nel dare forma e sostanza all’enormità di quello scontro, caratterizzano tutta la migliore tradizione letteraria americana che su quella crisi epocale, e sul suo lascito, si è interrogata, a partire dagli autori che ne erano stati testimoni diretti. Se nell’Ottocento le riflessioni artisticamente e culturalmente più rilevanti si trovano nella poesia di Whitman, così come in quella di Herman Melville e Emily Dickinson, a partire dalla pubblicazione, nel 1895, del Segno rosso del coraggio, scritto dall’allora ventitreenne Stehpen Crane, è stato il romanzo a farsi carico di esplorare le mille sfaccettature della guerra, in una produzione che non ha mai registrato interruzioni significative.

Solo negli ultimi decenni, infatti, sono usciti The Killer Angels di Michael Shaara, Cold Mountain di Charles Frazier (ripreso dall’omonimo film del 2003 di Anthony Minghella), il March (2005) di Geraldine Brooks e The March (2005) di E. L. Doctorow, tutti vincitori di premi importanti. Ora, l’appena uscito romanzo di Laird Hunt, Neverhome, tradotto assai efficacemente da Milena Zemira Ciccimarra per La nave di Teseo (pp. 262 pp, euro 18,00), s iscrive degnamente in questa importante tradizione. Narrato in prima persona da una donna che si traveste da uomo e lascia la sua fattoria per arruolarsi nell’esercito nordista (perché «Io ero forte e lui no. Lui era fatto di lana e io di ferro»), il romanzo segue la protagonista, ribattezzatasi Ash Thompson (forse perché, come la Fenice, deve divenire cenere per provare a rinascere) prima attraverso la furia degli scontri armati, poi lungo un doloroso viaggio di ritorno a casa.

Rovesciando i ruoli tradizionali («Penelope è andata in guerra e Ulisse è rimasto a casa»), il romanzo ci offre tanto uno squarcio di Iliade americana, dove Ash si distingue non solo per coraggio e perizia, ma per la durezza con cui riesce a restare a galla nella bolgia della guerra, quanto un’Odissea nella quale anche Ash dovrà fuggire – letteralmente – da una sorta di antro del ciclope fatto di sterco e sangue, ma anche dagli incantesimi e dalle lusinghe delle Circi e delle Calipso di turno.

Si potrebbe essere indotti a pensare che l’idea di fare di una donna-soldato la protagonista del libro sia venuta a Hunt in omaggio al fatto che le donne dell’esercito americano hanno ottenuto, almeno sulla carta, una completa parità di genere. Ma non è questo il caso: non solo perché Hunt si ispira a dati storici (sono oltre quattrocento i casi documentati di donne che, cross-dressed, si arruolarono per combattere sia al Nord sia al Sud, e nella nota a fine testo fa esplicito riferimento alle Civil War Letters di Sarah Rosetta Wakeman), ma soprattutto perché l’autore riesce a creare una voce del tutto credibile come espressione di quell’epoca particolare, scartando ogni tentativo di renderne «attuale» la vicenda.

I confini di questo romanzo sono rigorosamente quelli della coscienza della sua protagonista. Se talvolta la prosa si fa poetica, ciò avviene senza mai ricavarne l’impressione che sia lo scrittore e non il personaggio a parlare. La traduzione non poteva riproporre le sgrammaticature dell’originale, ma riesce sia a tenere il ritmo della voce narrante, sia a riprodurne una tonalità che definirei austera, anche se non priva di momenti lirici e onirici, soprattutto quando i fantasmi che la abitano (primo tra tutti quello della madre) reclamano la scena.

La cura che Hunt mette nell’ancorare il suo personaggio al mondo, alla geografia e alla lingua di anni lontani, non nega al suo romanzo anche una filiazione dal nostro tempo. Per esempio, quando la narrazione recupera la fondamentale presenza afro-americana nella guerra, troppo spesso cancellata nelle rappresentazioni ottocentesche, attraverso un drammatico incontro-scontro tra Ash e una sua omologa dalla pelle nera, che in una davvero intensa storia di una sola pagina – aperta e conclusa da un imperioso «Adesso stammi a sentire» – ci ricorda che un conto è andare in guerra, e un conto combattere la schiavitù.
Il romanzo, che è la storia di Ash, diventa anche quella dell’America e non può dunque ignorare quanto oggi sappiamo: quella guerra avrebbe per molti versi fallito l’obiettivo di restituire libertà e dignità ai neri. Per riavere la sua fattoria, questa moderna Penelope armata dovrà scacciare i Proci che l’hanno invasa; ma – come si intuisce dal titolo del romanzo – sarà destinata a non sentirsi mai «a casa». La coraggiosa Ash ha imparato, infatti, che anche se sai usare il fucile come un tiratore scelto, «la paura ti trova . Ti trova sempre».