Un concerto a tema, non si può dire a programma, diciamo con uno spunto ideale che suggerisce un itinerario. Il titolo è Notturni. Pensi a Chopin e a tanti fino a Sciarrino. Da solo con il possibile ricorso all’elettronica c’è all’Auditorium romano Daniele Roccato, contrabbassista tra i più grandi al mondo, compositore, improvvisatore.

IN PIZZICATO e in arpeggi è subito melodia malinconica cantabile. Suoni radi dell’elettronica fungono da basso continuo e creano atmosfera di notte bianca, di mestizia. Il lirismo diventa dispiegato con l’archetto, riflessioni e ricordi inquieti. Un canto troppo dolce per essere sopportato, la dolcezza è fuori dal mondo, è insopportabile, per questo è bellissima. E il canto di Roccato ha in questo punto qualcosa di lancinante.

LA SONORITÀ di questo strumentista-compositore – tutta l’opera è scritta ed è una successione con brevissimi stacchi di diversi movimenti – è stupenda: ne godi in questa performance la nitidezza e profondità e anche il suo essere scabra e molto densa quando si sovrappone all’elettronica. Perché l’arpeggiare diventa più fitto e poi entrano figurazioni ritmiche, come di un battito. Che lascia il campo a un pizzicato assorto, un «ricercare». Quando riprende il battito viene in mente, come mood, il «quarto mondo» di Eno-Hassell.
Ma Roccato non è famoso come musicista avant-garde? Certo, nessun problema a passare dal canto disteso (con interferenze elettroniche, con armonie complesse che arricchiscono i tragitti sonori) a sequenze di suoni «alterati» e di linee «informali», mantenendo quel che di meditativo e di sentimentale. Spunta Round Midnight a un certo punto. Viene fuori fuori naturale in questo set. Ma quanto è fatta propria questa celebre «canzone» di Monk, con quanta finezza viene trattata, quanto pensiero di sperimentazione ci mette Roccato.

Gli episodi che vengono dopo riguardano il materico, pur sempre in un’aura di lirismo. Riguardano i fraseggi «non conseguenti», free, l’elettronica astratta. Poi episodi di meditazione che suonano quasi classici, nel senso dei romantici più pensosi (uno Schumann, per esempio?). Nel finale torna il canto, più intimo, meno «impudico».

ROCCATO votato all’eterogeneità. Roccato postmoderno? No, non certo nel senso della «vulgata». Nessuna concessione al citazionismo, modulazioni tra materiali diversi compiute con una mirabile coerenza e con forte amore del contemporaneo.