«L’ecovillaggio è la cellula del futuro corpo sociale, trasformazione in atto – o se volete “rivoluzione” – dal basso, non violenta e silenziosa, che ha dimensione mondiale e prefigura una fuoriuscita radicale dal sistema. In Italia (…) il raddoppio in pochi anni del numero degli ecovillaggi costituiti e dei progetti in fase di realizzazione mette in luce un nuovo corso, esistenziale e politico, soprattutto tra le giovani generazioni». Una tale affermazione può sembrare forte a chi non abbia fatto esperienza diretta di queste forme di vita comunitaria che partono dal rapporto con gli ecosistemi per costruire modelli relazionali più equi, conviviali e soddisfacenti. Può sembrare ottimista a chi non abbia visto fiorire la Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, anno dopo anno, fino all’ultimo incontro di fine luglio 2013, gremito di giovani e ricco di così tante nuove esperienze.
Versione italiana del Global Ecovillage Network, la Rive si è formalizzata nel 2007 – grazie anche all’iniziativa del mensile Terranuova, che funge da organo ufficioso della rete – ed è già un punto di riferimento e d’ispirazione per moltissimi.
Chi erano gli oltre 500 partecipanti al raduno di quest’anno e cos’è un ecovillaggio? Gran parte erano giovani romani, ma anche persone provenienti da tutte le regioni d’Italia e dall’estero (Spagna, Slovenia, Brasile) interessati alle conferenze ed ai workshop offerti (bioedilizia, cesteria…) e ad apprendere qualche cosa circa alternative di vita concrete ed accessibili, lontane dalla nevrosi urbana e dal precariato. Poi c’erano una trentina di volontari che avevano allestito il campo e coordinavano le operazioni. Ed infine un centinaio erano rappresentanti degli oltre 20 ecovillaggi toscani, milanesi, bresciani, padovani, vicentini, siciliani, calabresi…

La maggioranza hanno tra i 10 e i 20 abitanti, ma con dei picchi a 200 (il Popolo degli Elfi) e 600 (Damanhur). Si tratta di comunità intenzionali ecosostenibili, gruppi umani che intendono dare ai luoghi in cui vivono più di quanto vi hanno trovato, e che hanno scelto come impegno prioritario di condividere la loro esistenza con altre persone in virtù di una visione comune (di ordine etico, spirituale, ecologico, sociale).
A differenza del cohousing, chi va a vivere in un ecovillaggio, oltre a fare una scelta abitativa a basso impatto ambientale, decide di aprire la propria vita professionale, economica ed affettiva al gruppo di persone e al luogo scelti. Le realtà più grandi hanno strutture produttive, falegnamerie, scuole autogestite ispirate ai modelli libertari e percorsi didattici per i bambini delle scuole intorno. Questi luoghi, infatti, sono veri e propri laboratori di scambio di saperi intergenerazionale e università del fare a cielo aperto.

Un esempio? Provate ad immaginare 19 adulti di età e professionalità diverse – insegnanti, pensionati, artisti di strada, impiegati, agricoltori, artigiani – che versano in una cassa comune i propri stipendi e che una volta prelevata una paga uguale per tutti, impiegano le restanti risorse per le spese comuni, ovvero per le cure mediche, educazione dei bambini, parco auto, energia, cibo, abitazione ecc. Un’utopia? Eppure è quanto avviene da quasi quarant’anni nella Comune di Bagnaia. La Comune infatti esiste dal lontano 1979 ed insiste su un podere di 80 ettari sui colli senesi, i suoi abitanti, dopo aver acquistato il podere ne hanno ceduto la proprietà all’associazione. Oggi metà di loro lavorano fuori e metà nel podere che produce vino, olio, miele, carne, ogni genere di ortaggi, conserve, pane, formaggi e insaccati. C’è un parco auto con ottimi sconti assicurativi, ne bastano 6 o 7 per tutti. Si produce un secchiello scarso di spazzatura al giorno in 18, poiché si compra all’ingrosso, il latte delle mucche e le verdure dell’orto non hanno imballaggi, le bucce e gli scarti organici vanno al compost. Così rimangono solo i tovagliolini di carta da buttare! Le decisioni vengono prese con la metodologia del consenso e le idee che accomunano i membri sono di stampo pacifista e libertario, laico.
Gli ecovillaggi sono tutti molto diversi tra di loro, ma ci riconciliano con un aspetto che anche i progressisti hanno perso per strada, nella misura in cui le loro azioni muovono da concetti astratti in società statalizzate costituite di regole e relazioni anonime: la dimensione comunitaria, a volte tribale, che si reinserisce a pieno nella modernità attraverso un dialogo stimolante. Gli ecovillaggi risvegliano i fondamenti stessi delle democrazie: così come l’Agorà ateniese (piazza del mercato dove confluivano le messi delle campagne dell’Attikì), sono luoghi nei quali il rapporto tra le persone è indissolubilmente legato al rapporto tra la civiltà e la natura circostante.

Francesca Guidotti, che oggi compie 27 anni ed è la neo-presidente della rete nonché l’autrice del libro Ecovillaggi e cohousing, ci racconta: «Chi cerca un posto per questo tipo di esperienza parte dal bisogno di trovare un punto fisso per la propria vita, spesso lontano dalla città, sia per ritessere un rapporto con la natura, sia perché le aree rurali permettono di soddisfare almeno parte del proprio fabbisogno alimentare. Le chiavi sono il vivere comunitario, il pensare ecologico e il volersi migliorare. Trasformare un territorio dismesso o abbandonato è un modo per oggettivare la scoperta di sé, come fece Carl Gustav Jung verso la fine della sua vita costruendo una casa-simbolo del suo lavoro psichico. Appartenere ad un luogo dà la misura fisica dei cambiamenti che siamo in grado di operare, su scala locale e globale. Stranamente però questo dono di sé al luogo non crea attaccamento ed i moderni ecovillaggisti si spostano molto: grazie anche al supporto della comunità sono più liberi e meno vincolati rispetto ai componenti delle piccole famiglie contadine».
E conclude: «La vita di tutti i giorni tuttavia pone problemi molto concreti e per risolvere gli eventuali conflitti bisogna attrezzarsi. Risulta così indispensabile dotarsi di strumenti adeguati sul piano della facilitazione e della progettazione condivisa: comunicazione non violenta, comunicazione empatica, metodologia del consenso, dragon dreaming, permacultura, sono alcune delle tecniche usate nella maggior parte degli ecovillaggi. Infatti dal dopoguerra in poi, abbiamo sviluppato una cultura fortemente individualista in cui paghiamo per avere ciò che vogliamo e non dobbiamo chiedere più nulla a nessuno. Abbiamo disimparato a chiedere, a contrattare. In questo caso invece del denaro si impara ad usare la mediazione e la relazione per arrivare a realizzare i propri desideri. Non ultima poi la dimensione spirituale, una caratteristica diffusa in molti eco villaggi. quelli a matrice spirituale o dotati di forti ideali sono i più saldi, poiché le pratiche di consapevolezza, i rituali e gli obiettivi condivisi tessono fili invisibili ed aiutano a trovare una guida nelle proprie scelte».