Il ministro degli Esteri Emma Bonino, nell’audizione alla Camera sulla situazione in Egitto, ha fatto riferimento a 20 mila italiani presenti nel paese. Per loro sono arrivati gli avvertimenti del ministro alla prudenza. Ma gli italiani d’Egitto sono una comunità ben più ampia dei 19 mila residenti secondo l’Agenzia degli italiani residenti all’Estero (Aire). Parliamo qui delle migliaia di italiani di Alessandria d’Egitto, Port Said e del Cairo, della loro costante presenza nella storia egiziana sin dalla fine dell’Ottocento.
Il dialetto egiziano è ricco di termini italiani. Cravatta, roba vecchia, macchina, balcone, carretto: sono parole pronunciate inconsapevolmente dagli egiziani e prese in prestito dalla lingua italiana. Sono il simbolo di un’antica presenza italiana nel paese non solo legata agli impegni bellici. Inoltre, in ogni quartiere del Cairo ci sono italo-egiziani che, per godersi la pensione, sono tornati nel loro paese dove aver vissuto anni in Italia, e per questo ne ricordano la lingua e la vita. È poi molto difficile ricostruire la storia di figure del tutto inusuali che hanno sfidato l’ostilità e la povertà locale, decidendo di passare la loro vita al Cairo.
Tra loro un fotografo che ha vissuto per decenni in Egitto. Derno Risi aveva una minuscola casa nel quartiere popolare sul Nilo, Embaba, ed è scomparso pochi anni fa. Un’altra figura leggendaria è il direttore dell’Istituto italiano di cultura Carla Burri, che negli anni Settanta vide la Sama Khana abbandonata tra mucche e animali e decise che il teatro sufi dovesse tornare al suo antico splendore. Fino ai giovani insegnanti delle scuole italiane del Cairo (Leonardo Da Vinci e Dante Alighieri, unite nel Consolato italiano di via Galaa, e la Don Bosco di Rod El Farag a Shubra) che hanno ormai assunto un ritmo di vita tipicamente egiziano.

Tra gli italiani del Cairo tre persone meritano una particolare attenzione. La prima è Madame Cressati. È la proprietaria di un’antichissima pensione nel centro del Cairo. Si chiama Pensione Roma, si trova a due passi dalla sinagoga e all’ultimo piano di un palazzo che ospita i Gattegno: famiglia di ebrei italiani rifugiatisi in Egitto. La signora Cressati è figlia di una palermitana e parla un italiano ricercato, spesso mischiato ad arabo e francese. «Mia madre mi parlava in italiano e da allora non ho mai smesso di parlarlo, anche con mia figlia che mi risponde in arabo», inizia Madame Cressati. «Il nostro palazzo si trova sopra piazza Tahrir, per questo passiamo notti intere senza dormire», ammette preoccupata, aggiungendo che la pensione è completamente vuota a causa della crisi politica. E poi chiede una nostra opinione. «A me fanno pena le vittime, ma in questo caso non posso capire i Fratelli musulmani. Morsi (ex presidente, ndr) aveva assicurato a Sisi (capo delle Forze armate, ndr) che avrebbe lasciato il potere e non l’ha fatto. L’unica soluzione per i militari era riprendere il controllo dopo il disastro politico di un anno di Fratellanza», ammette. Madame Cressati ha negli occhi gli anni magnifici della sua giovinezza, quando nei salotti di questo palazzo si tenevano danze e feste. «Abbiamo attraversato la storia egiziana, viaggiando spesso in Italia, in Libano e a Luxor insieme a mio marito, dirigente della General Electric, scomparso tanti anni fa», ricorda la signora Cressati con uno sguardo dimesso.

Usciti dalla pensione Roma, su via Mohammed Farid si vedono palazzi dei primi del Novecento, alcuni portano scritte in italiano, come Adriatica, impressa sulla cima di un bellissimo edificio del centro. Qui ha vissuto per decenni la famiglia Pizzuto. I Pizzuto sono stati protagonisti dei movimenti operai del 1919 a Mahalla al-Kubra. Anzi, dalle cronache dell’epoca vengono definiti degli anarchici che incitavano i lavoratori delle industrie tessili all’attivismo e alla rivolta. Emira Pizzuto è il direttore della scuola italiana Leonardo Da Vinci. Anche lei parla in arabo con bidelli e segretari, ha mantenuto un piglio da dirigente. «Questo paese ha subito una trasformazione che si riflette nei comportamenti delle persone», inizia Pizzuto. La docente ha vissuto per molti anni della sua gioventù in Iran e sono quei ricordi a illuminarle lo sguardo. «La vita al Cairo trascorre lenta, mentre la scuola perde di giorno in giorno studenti ed è vicina alla chiusura», ammette Pizzuto. Il Consolato di via Galaa è stato anche al centro di scontri nei primi giorni delle rivolte del 2011, per questo le grate di ferro separano questa scuola dall’esterno e i bambini arrivano in queste ampie e antiche aule (la scuola è stata fondata da religiosi nei primi del Novecento), condotti da autisti o autobus privati.
Ancora più incredibile è la storia di Giuseppe Fanfoni, 73 anni, genio e artista italiano che vive da decenni in Egitto. È docente di restauro all’Università la Sapienza di Roma. Ma come è iniziata questa stretta relazione con uno dei luoghi più suggestivi del Cairo? «Sono arrivato in Egitto nel 1962 al tempo dello spostamento del tempio di Abu Simbel – inizia Fanfoni – Sono poi tornato per un corso di restauro all’Università del Cairo negli anni Settanta. “Dobbiamo salvare questo piccolo teatro”: mi disse Carla Burri dopo aver visto la Cupola del teatro Mehlevi, usato per riti sufi da vecchi dervisci. Le dissi che avevamo bisogno almeno delle impalcature per tenerlo in piedi. E così Haggag Ibrahim, ora presidente del Dipartimento archeologico dell’Università di Tanta, raccolse con un carretto piccole travi degli edifici vicini. Vennero poi dei lavoratori da Helwan per iniziare il lavoro. Dal 1984 sono stati coinvolti studenti e la cooperazione italiana. Nel 1988 il restauro era completato, con l’aiuto di 500 persone, tra studenti, restauratori e lavoratori. Poi abbiamo iniziato il restauro della vecchia madrasa. Abbiamo ottenuto finanziamenti dall’Italia pari a 400 mila euro grazie all’Università di Bologna», ci spiega Fanfoni, ora direttore del Centro italo-egiziano per il restauro.
Gli avvertimenti di Bonino per gli italiani d’Egitto suonano ridondanti, gli italiani che abbiamo sentito non lasceranno mai questo paese. Alcuni residenti di lunga data sono tornati in Italia in seguito alle rivolte. Ma non gli artisti, avventurieri e gli anarchici che hanno deciso di dedicare la loro vita all’Egitto. Dai loro racconti traspare un mondo nascosto dalle cronache delle rivolte che vive il nuovo Egitto con timore e incredulità.