Come poté avvenire che una battaglia, per l’esattezza la dodicesima combattuta sull’Isonzo, durata una quindicina di giorni, assumesse i contorni di una sconfitta dai toni catastrofici, con quarantamila morti e feriti, duecentottantamila prigionieri e trecentocinquantamila sbandati da parte italiana? Perché la sua memoria, ovvero la ridda di ricordi, interpretazioni, attribuzioni di colpe, mancate assunzioni di responsabilità, accompagnò tutto il primo dopoguerra, fu anestetizzata dal fascismo e riprese poi vigore nell’età repubblicana, quasi si trattasse di una capitolo di storia che non poteva né doveva essere chiuso? Se la pubblicistica rimane ancora oggi terreno di dispute piuttosto stanche e scontate, la storiografia ha invece offerto notevoli elementi di giudizio, ricostruendo la trama non solo degli eventi ma anche delle decisioni, così come delle omissioni, che accompagnarono quei drammatici giorni.

TRA I MOLTI NOMI dei maggiori studiosi che hanno lungamente lavorato sull’impatto della Grande guerra sull’Italia, tornano quelli di Piero Melograni, Alberto Monticone, Mario Isnenghi, Giovanna Procacci, Giorgio Rochat, Antonio Gibelli Nicola Labanca, nonché la figura più significativa per la ricerca in materia, Piero Pieri, che di tutti fu l’apripista. Nei loro libri, anche da angolazioni differenti, si può capire il «fenomeno caporettista», tanto nel passato quanto nelle sue proiezioni a noi più prossime. Caporetto costituisce, infatti, un luogo fisico ma anche e soprattutto la sineddoche della disfatta che si riproduce nel corso del tempo, controbilanciando la memoria eroicizzante di Vittorio Veneto, celebrata soprattutto dalle componenti nazionaliste dello spettro politico e guardata a lungo con diffidenza da quelle restanti.
Nelle visioni di Caporetto confluiscono quei tratti di un irrisolto «spirito» nazionale, sospeso tra cinismo, esasperazione, servilismo ma anche autoesaltazione e un vero e proprio erotismo dello sfacelo di cui, ad esempio, Curzio Malaparte – debitore a Leonida Bissolati della mitografia dello «sciopero militare» dei fanti, definiti come «santi maledetti» – fu un grande esponente. Tanto più dal momento che la tragedia restò incompiuta, la partitura si fermò nel momento in cui tutto sembrava invece essere destinato a precipitare (la rotture delle linee italiane tra Plezzo e Tolmino, la conquista austro-tedesca del Friuli, la minaccia nei confronti della pianura padana), assestandosi su un arco difensivo, il Piave, dal quale si sarebbe giocata la parte restante della Grande guerra per il nostro paese.

SU CIÒ CHE SI SUCCEDETTE tra il 24 ottobre e il 12 novembre 1917 si sono sprecati fiumi d’inchiostro: una ricostruzione millimetrica, con il piglio del narratore di vaglia, è quella di Alessandro Barbero in Caporetto (Laterza, pp. 645, euro 24,00), la cui ambizione, che traspare chiaramente dalle molte pagine, è quella di offrire un affresco epocale, catturando l’attenzione sul succedersi degli eventi osservati dal punto di vista dei diversi protagonisti. È proprio in questo libro che la scrittura di Barbero raggiunge la sua massima incisività, avendo egli fatto dell’immedesimazione nel tempo raccontato, nel suo svolgersi in soggettiva, un tratto fortemente distintivo.

LA LETTURA DEL SUO LIBRO è efficace nel restituire il senso della concatenazione dei fatti, le ansie dei protagonisti, le velleità di alcuni e lo spiazzamento di molti altri. Il fatto, poi, che il testo in sé corposo sia accompagnato da una nitida cartografia, con le dinamiche dello sfondamento, è di indiscutibile aiuto. Da leggere come libri a sé nel libro stesso, i due ultimi capitoli, rispettivamente dedicati al «cadere prigionieri» e alla «ritirata del Friuli tra apocalisse e carnevale».
Un intero capitolo del volume Caporetto. Storia e memoria di una disfatta (il Mulino, Bologna 2017, pp. 239, euro 19,00) viene dedicato dallo storico Nicola Labanca a ragionare su «cento anni di pubblicazioni», una sorta di repertorio logico e cronologico. Più che la somma dei fatti, quello che entra da subito prepotentemente in gioco, già mentre gli eventi sono ancora in corso, è la polemica su come intendere e a chi attribuire le responsabilità del cedimento italiano.
Caporetto è anche e soprattutto un dato politico, poiché mette a nudo le incongruenze della condotta bellica italiana e le paure che si accompagnano al prosieguo della guerra. Soprattutto, è un colpo di frusta nei confronti della classe dirigente liberale. Nel 1917, alla mobilitazione verticistica dei subalterni, che si accompagna alla trasformazione dell’Europa in una immensa distesa di campi di battaglia, si contrappone lo spettro rivoluzionario. Non farà una vera differenza, soprattutto nel caso italiano, ma di certo contribuisce a mettere in moto meccanismi, a tratti poi divenuti quasi inerziali, che imprimono a una guerra, fino ad allora statica, una svolta rilevante.

L’INIZIATIVA AUSTRO-TEDESCA si inscrive in quest’ordine di fattori, il cui disegno di fondo sta nel tentativo di creare le condizioni per terminare il conflitto in posizione di vantaggio. L’Italia, nel mentre, scontava lo stallo in cui si trovava. Già da tempo si era esaurita la forza propulsiva della retorica interventista, una stanchezza abissale si era manifestata tra le truppe (più di due milioni di uomini variamente impegnati in una guerra senza orizzonte), la mancanza di una strategia difensiva, insieme alle incongruenze degli alti comandi era evidente: ne derivò un cedimento strutturale, uno smottamento che poco si presta a interpretazioni ideologiche e volontaristiche e molto, semmai, ad analisi sulle dinamiche cumulative e di reciproca interazione tra fattori diversi. Caporetto, quindi, fu anche un laboratorio sociale e civile. Basti pensare che all’illusione nutrita da una parte dei soldati, quella per cui in un capovolgimento militare sarebbe stata inscritta la fine della guerra, si accompagnò da subito la dura occupazione austriaca dei territori italiani caduti in mano avversaria.

IL FENOMENO DEI PROFUGHI civili assunse proprio in quella occasione proporzioni altrimenti ancora ignote per l’Italia. Daniele Ceschin, in L’Italia del Piave. L’ultimo anno di guerra (Salerno editrice, pp. 232, euro 15,00), riparte da questi e altri dati per tratteggiare non solo ciò che fu Caporetto ma anche cosa, a partire da quel dramma collettivo, maturò in una nazione che rivelava le sue incertezze di identità e una difficile coesione.
La figura del più importante protagonista della disfatta è infine ricostruita, con notevole competenza, da uno dei maggiori storici militari italiani della generazione più giovane, Marco Mondini: con il suo volume dedicato a Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna (il Mulino, pp. 388, euro 26,00) offre una biografia non solo politica e militare ma anche culturale, scavando nell’universo di convinzioni di un soldato di mestiere in età contemporanea.

AI SIMBOLISMI attribuiti nel corso del tempo a Caporetto si sono infatti accompagnati i giudizi formulati su Cadorna, alternativamente inteso come il colpevole artefice, oppure l’immacolato capro espiatorio della dura sconfitta: echi antichi, pervenuti fino a noi, su quello che è stato definito un «attore ambiguo della memoria collettiva». La singolarità del personaggio ma anche la prevedibilità di una parte delle sue scelte, inscritte dentro la logica delle armi come esercizio di professione, restituisce aspetti di un quadro d’epoca, quello delle funzioni e delle dinamiche degli eserciti di massa nelle società moderne e nelle «guerre totali», troppo spesso dimenticato dalle polemiche di circostanza. L’equilibrio dell’analisi di Mondini si accompagna al pieno controllo della materia, ovvero il trittico tra istituzione militare, potere politico e dinamiche sociali nei regimi a base costituzionale.

Ragionare ancora una volta a schemi aperti su Caporetto è forse il punto da cui partire per evitarsi i ricorsi della retorica patriottarda qualora, il prossimo anno, qualcuno volesse rilanciare la mitografia del Piave e di Vittorio Veneto come lavacro nazionalista.