Il tatuaggio entra al museo, con una mostra che per la prima volta privilegia uno sguardo artistico rispetto a un più tradizionale approccio di tipo antropologico. Con Tatoueurs, Tatoués, il Musée du Quai Branly (fino al 18 ottobre) presenta attraverso più di 300 opere un percorso nella storia e nella geografia umana: difatti, il tatuaggio, oggi tornato di moda un po’ dappertutto, esiste dalle prime tracce umane sulla terra e ha riguardato tutte le civiltà. Il più antico corpo con tatuaggi (57 per la precisione) è quello di Ötzi, vissuto 4500 anni fa e ritrovato nelle Alpi del Tirolo nel 1991. «Abbiamo voluto mostrare che il tatuaggio è una cosa seria e che non esiste paese al mondo dove non esista da sempre», spiega Tin-Tin, famoso tatoueur francese di star, che ha tatuato John Galliano e Paul Gaultier ed è consulente artistico della mostra. Il fatto che ora «entri al museo – aggiunge Tin-Tin – è forse il primo passo verso il riconoscimento come un’arte a pieno titolo». I due curatori, in arte Anne e Julien, fondatori della rivista Hey! Modern art & pop culture, affermano: «a lungo, tatuatori e tatuati occidentali non avevano privilegiato una preoccupazione per il bello nel significato dato dall’arte alta. Connesso con i bassi strati popolari, l’atto era brut, la sua virtù si leggeva nell’audacia del gesto. Poi, alla fine del XIX secolo, alcuni tatuatori hanno imposto la qualifica di tatoo artist per esprimere la dimensione del loro lavoro. Allora, poco per volta, il tatuaggio ha abbandonato il terreno esclusivamente artigianale per interrogare il soggetto e la sua interpretazione».

Un pubblico di massa

Per illustrare i nuovi sviluppi di questa forma d’arte, per la mostra sono stati realizzati da artisti contemporanei 13 interventi di tatuaggio su dei prototipi in silicone di parti di corpi umani e delle tele vergini sono state affidate a 19 artisti di tutti i continenti, per realizzare dei «progetti di tatuaggio». È nel XX secolo che il tatuaggio diventa arte: a Londra, Sutherland MacDonald, soprannominato il «Michelangelo del tatuaggio», aveva fatto stampare nel 1891 un biglietto da visita con la menzione «tatoo artist». Alla fine degli anni Settanta, a Los Angeles Charlie Cartwright e Jack Rudy intrecciano lo stile realista delle gangs locali e della cultura chicana con la ricerca dell’arte contemporanea; in Cina nel nostro secolo vengono ripresi i temi storici accanto alle immagini ludiche del mondo dello spettacolo attuale; in Europa si sviluppano astrazione e forme grafiche. Oggi, lo svizzero Philip Leu, il giapponese Horiyoshi III, l’americano Jack Rudy, il britannico Xed Lehead, il polinesiano Chimé, oltre a Rudy Fritsch (Italia), Sabine Gaffron (Svizzera), Robert Hernandez (Spagna), Lynn Akura e Alex Binnie (Gran Bretagna) o Luke Atkinson (Germania), tutti presenti in mostra, sono ormai esponenti a pieno titolo del mondo dell’arte contemporanea. Così come i «tatuati», altrettanto famosi: oltre a personalità del mondo dello spettacolo e della moda, c’è anche il celebre Lucky Rich, nato nel 1971, l’uomo più tatuato al mondo, con interventi persino sotto le palpebre.

Rito di passaggio, atto estetico, segno di esclusione o, al contrario, di appartenenza, fino ad essere ora un fenomeno di moda (un quarto della popolazione degli Usa è tatuato), i significati che stanno dietro l’atto di segnare indelebilmente la pelle rimandano a un ampio spettro di situazioni. Il termine viene dal polinesiano tatau, reperito dall’esploratore Cook nel XVIII secolo. Il gesto esisteva però già in Europa, è proibito nel Levitico e nel Nuovo Testamento, ne parla Giulio Cesare, è ufficialmente represso dal secondo Consilio di Nicea nel 787, ma i pellegrini nel Medioevo continuano a praticarlo (a Gerusalemme, la famiglia Razzouk per generazioni ha tatuato i pellegrini copti, siriani, armeni ecc. che volevano avere una traccia del loro passaggio in Terra santa e il sigillo utilizzato per il disegno da incidere è in mostra al Quai Branly).

Il tatuaggio ha per secoli una funzione marginalizzante, non solo in Occidente. Gli schiavi erano marcati nell’antica Roma, nella Cina imperiale era il segno della stigmatizzazione dei criminali, il Code Noir di Colbert prevede la marcatura di delinquenti e prostitute; dopo i medici della marina i criminologi positivisti, come Cesare Lombroso in Italia, documentano i tatuaggi degli ambienti devianti. Sono tatuate di forza le donne armene rifugiate nei paesi vicini dopo il genocidio turco, nei campi di concentramento nazisti viene imposta l’incisione di un numero. Ma nel XIX secolo si sviluppa un tatuaggio volontario, di sfida, strumento di rivendicazione, dai marinai ai soldati ai carcerati, l’incisione della pelle diventa un atto militante. «Dai marciapiedi al gulag – spiegano i curatori – il tatuaggio scrive un vocabolario criptato di una popolazione determinata a sfidare l’autorità e a affermarsi in un ambiente ostile».

Stili e tecniche

Il tatuaggio, i suoi stili, i riferimenti storici e le tecniche, fanno il giro del mondo. Negli Usa, dove c’era una tradizione amerindiana e nell’Ottocento era diventato un fenomeno da circo, l’effervescenza attuale del fenomeno deve molto all’irezumi giapponese, che ha esportato nel mondo il modello di «club» di tatuatori (esistente in Giappone dal 1902) all’origine strumento di punizione militare poi riscoperto dagli stranieri, dopo che, proibito nel 1872, era stato adottato nell’ombra dalle organizzazioni criminali yakuza. L’interesse degli europei rilancia il tatuaggio tradizionale in Nuova Zelanda, dove oggi è «tesoro nazionale» per i maori, nelle Samoa, in Polinesia, in Borneo, Filippine, Indonesia, Tailandia, in un incrocio tra passato, presente e interrelazione mondializzata tra diverse culture. Anche grazie a nuove tecniche (nella prima metà del Novecento negli Usa viene inventata la macchina elettrica per tatuare) e a una istituzionalizzazione degli operatori (è del 1976 la Convenzione di Houston, prima convenzione mondiale di tatuaggi).