All’assemblea del Brancaccio forse si è aperta la nuova stagione della sinistra. È stato ben detto: non dobbiamo ripetere gli errori del passato. Le alleanze sono indispensabili per la riuscita dei progetti politici ma devono fondarsi su contenuti e idee, non sui nomi.

Ciò vuol dire no alle pregiudiziali conventio ad includendum o ad escludendum fondate su fiducie ad occhi chiusi o su rancori per contrasti passati. E’ già questo è un buon inizio.

È stata una bella assemblea. Abbiamo squadernato i temi sui quali una sinistra può e deve impegnarsi e affascinare il proprio elettorato.Lavoro, lotta alla precarietà, contrasto alla evasione fiscale, tassazione progressiva ed effettiva, reddito minimo di cittadinanza, beni comuni, scuola, sanità, giustizia, cultura dell’ambiente, accoglienza, diritti civili, tutela del patrimonio storico e archeologico. Solo una cosa è mancata nella discussione:come facciamo arrivare queste idee e questa sensibilità in Parlamento?

Il mezzo di trasporto è la legge elettorale, ma, nonostante gli impegni presi dopo il 4 dicembre e la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, l’unica cosa che abbiamo visto è stato l’indecoroso spettacolo dell’8 giugno quando un (già impresentabile) disegno di legge è naufragato. Si è detto a causa di tradimenti politici e di franchi tiratori. A me sembra evidente un’altra cosa, anzi due: a) i parlamentari attuali, non hanno nessuna voglia di lasciare l’incarico anzitempo e perdere prebende privilegi e vitalizi; b) i leader dei partiti non hanno nessuna intenzione di lasciare agli elettori la scelta dei parlamentari, neanche in parte. Vogliono i nominati.

Ma una buona legge elettorale è indispensabile per la sinistra. Altrimenti possiamo dire addio alle speranze che la nostra semina germogli nelle Istituzioni. Rimarrà nei tanti Brancaccio che ci sono stati e negli altri che verranno.

Ed allora la questione di fondo è: con quale sistema è meglio garantito il giusto equilibrio tra rappresentatività e governabilità? Con il maggioritario o con il proporzionale? Per rispondere occorre tener presente che la rappresentatività e la governabilità non sono elementi da amalgamare mediante una speciale alchimia elettorale, ma l’uno è la conseguenza dell’altro; solo la effettiva rappresentatività assicura la vera governabilità.

Dalla prima, cioè dalla coerenza tra il peso elettorale di ciascuna area politica e la sua traduzione in seggi parlamentari e dal legame indissolubile degli eletti con gli elettori discende la forza di un governo. Esso si fonderà, in tal caso, sulla energia derivante dal consenso popolare e dalla responsabilizzazione che il cordone ombelicale con il popolo produce in ciascun eletto, che per questo sarà spinto (lui e mediante lui il suo partito) a ricercare ed a trovare le alleanze politiche giuste e stabili per il governo del paese. Lavoro difficile, duro e affascinante. La politica, appunto.

Le scorciatoie le abbiamo viste e non funzionano: ipermaggioritari, premi di governabilità e nomine. Tutti sistemi tendenti ad eliminare confronti, discussioni, mediazioni (definite chiacchiere ed inutili perdite di tempo) a beneficio della creazione di un centro decisionale fatto da poche persone,(possibilmente una sola).

Per la classe dirigente generata da questo sistema l’obiettivo non è l’esercizio del governo ma l’attività del comando ed è sintetizzato nella ormai celebre frase: «La sera delle elezioni occorre sapere chi ha vinto». Parole accattivanti e rassicuranti ma, a ragionarci sopra, del tutto inadeguate a rappresentare il fine ultimo delle elezioni.

Che non è quello di stabilire istantaneamente un solo vincitore ed un vinto, chi comanda e chi ubbidisce, una maggioranza (magari fittizia) che soverchia o addirittura sopprime la minoranza. I popoli sono organismi complessi e le elezioni non sono una partita da vincere o perdere comunque, ma lo strumento che serve a proiettare nelle istituzioni la reale composizione del Paese, delle sue classi e delle sue categorie sociali, in modo da creare le condizioni affinché queste rappresentanze, o alcune di esse, possano, in modo democratico ricercare e trovare – prima o anche dopo le elezioni – i punti d’incontro per il governo del Paese.

Complicato? Forse, ma giusto. La semplificazione tipicamente renzusconiana per la quale le elezioni si fanno per decidere chi è il capo, avrà pure risolto la loro esigenza di individuazione di una strada semplice per stabilire una supremazia ma a noi ha portato rappresentanze istituzionali, avulse da qualsiasi vero problema e sorde alle sollecitazioni che vengono dal basso e – infine, purtroppo – indifferenti a qualsiasi senso etico, tanto da centuplicare gli ambiti di corruzione e di malaffare connessi all’esercizio delle attività e degli incarichi provenienti dalla politica.

Tutto ciò provoca il sentimento oggi più diffuso e pericoloso: l’antipolitica, che, da oltre duemila anni, conduce dritto alla deriva autoritaria.

La conseguenza naturale di queste riflessioni – e dello spettacolo indecoroso offerto – sarebbe quella di tornare a ripensare ad una legge elettorale semplice, proporzionale senza premi di maggioranza e con le preferenze.

Non il sistema perfetto – che non esiste – ma lineare e controllabile (al netto della corruttibilità delle persone virus dal quale, come visto, non è immune alcun sistema).

Così non sarà, ed allora, a voler essere realisti sarebbe giusto pretendere che se si dovesse riaprire la discussione sul disegno di legge al momento affondato, si introducesse quantomeno il voto disgiunto (altrimenti chi vota un proprio candidato nel collegio uninominale deve prendere pure il pacco del listino bloccato) e la preferenza unica nel listino preconfezionato (altrimenti gli eletti saranno scelti dai partiti).

Diversamente, tra premi di maggioranza, soglie di sbarramento, listini bloccati e amici nominati sarà davvero difficile che nel Parlamento che verrà si possa sentir parlare del programma del 18 giugno.