La letteratura che racconta mondi lontani è la stessa che, dopo tanto vagare, significa ritornare a casa. Presso di sé dopo aver visitato l’altrove. Peregrinare tra le spighe, a piedi nudi mentre lo sguardo si allaga per il dolore che, come l’amore, talvolta genera strabismo. «Questi mondi sono un riflesso o una rappresentazione di come abitare la vita». Ne è convinta Miriam Toews, scrittrice canadese in Italia da oggi per alcune tappe dedicate alla presentazione dei suoi romanzi. Ci appare così anche lei, nello stesso bagliore dolente del cielo che apre il film di Carlos Reygadas, Luz silenciosa (2007), in cui ha interpretato Esther.
È un esercizio di pazienza l’interrogazione della natura, il mutamento del suono che scorre in soggettiva dal tremore delle stelle al canto dei grilli. «Il mondo – prosegue Toews raggiunta per qualche domanda – è un posto tragico e contraddittorio, ma anche incantevole. E divertente. Per me, il dramma si verifica quando i personaggi letterari si trovano nel luogo in cui tutte queste cose si incrociano e si agitano». Subito dopo aver recitato nella pellicola del regista messicano, la scrittrice dà alle stampe il suo Irma Voth, edito in Italia da Marcos y Marcos (che di recente ha concluso la traduzione delle sue opere), che come nella maggior parte dei suoi romanzi ha nello sfondo la comunità mennonita, simile a quella di cui anche Toews ha fatto parte. Nata a Steinbach in Manitoba, vi ha infatti vissuto fino all’età di diciotto anni quando l’ha abbandonata per raggiungere prima Montréal e poi Londra. E ciò che ha attraversato è quel che sottende quasi tutte le sue narrazioni. «Molti dei miei testi – specifica – sono ciò che viene collocato come finzione autobiografica, ma penso davvero che tutta la scrittura sia radicata nell’esperienza personale, indipendentemente da come sia poi rubricata o etichettata. Attingo profondamente dal mio vissuto. In un certo senso la scrittura diventa un modo di comprendere o di ordinare l’esperienza, di usare il linguaggio per dare un senso a qualcosa che sembra incoerente e casuale».

AL CENTRO di una tale ambivalenza pulsante, ci sono spaccati famigliari feroci, contrappunto a una adolescenza imprevedibile, marca della disobbedienza inquieta che scompagina i baratri quotidiani, inciampo di una storia che insiste contro obblighi imposti, come per esempio in Un complicato atto d’amore (2005). È una complessità del colloquio con l’altro, disfunzionalità che bisogna poi smontare negli anni, di non detti e abbandoni; sarà per tutte queste ragioni che Toews ci confida quanto sia grata di aver scoperto Natalia Ginzburg, di cui per il momento ha letto Caro Michele. E ancora non è un caso che, della sua biblioteca, citi Random Family, di Adrian Nicole LeBlanc: «è un saggio-inchiesta ma si legge come un romanzo».
Il suo libro più potente è certamente Donne che parlano (2018) il cui nucleo è una vicenda realmente accaduta in una colonia mennonita boliviana. Dal 2005 al 2009 circa centotrenta donne della comunità lamentavano di svegliarsi sanguinanti e con segni di violenza sui propri corpi. Se di primo acchito alcuni avevano attribuito l’esito a fenomeni soprannaturali, si scoprirà presto che un gruppo di uomini, circa dieci, narcotizzavano le vittime con un sedativo veterinario per poi stuprarle durante il sonno.

A PARTIRE da questo sfascio, incistato di patriarcato, che è pur sempre una associazione a delinquere in questo caso mista a delirio di onnipotenza e bigottismo esasperato, Miriam Toews immagina che quelle donne, scoperti i misfatti e i loro responsabili, decidano di riunirsi esclusivamente tra loro in un fienile per capire insieme cosa fare. Le alternative sono tre: non reagire, combattere o andarsene. Scelgono la terza possibilità ma la traccia indelebile è il processo che le porta alla soluzione finale, le loro larghe sessioni in cui si ascoltano, si osservano e soprattutto si credono e sostengono a vicenda. Sembra che non sappiano, invece sono maestre della cura tra viventi. «È un atto d’amore, un puro atto di immaginazione», dice Toews. Forte è infatti il legame con le origini, ancora di più perché in ciascuna di queste straordinarie e pensose creature letterarie ci sono sua madre, sua sorella, le sue cugine, le amiche intime; «da loro sono partita per modellare le protagoniste del libro. Penso con grande affetto e rispetto alle mennonite che ho conosciuto in passato e incontro ancora oggi. Del resto ne sono circondata: mia mamma, che vive con me, la mia migliore amica con cui sono cresciuta insieme. Quando sono accanto alle donne mennonite sento una specie di lavacro calmarmi e sommergermi. Conversiamo quasi in codice, un linguaggio sovversivo colmo di battute e umorismo. Nessuno ride tanto quanto una mennonita. Allo stesso tempo condividiamo una storia di oppressione e la comunanza di essere state silenziose abitanti delle nostre stesse comunità». In questa alleanza per scardinare la violenza, Miriam Toews descrive la pratica – umana e politica – di un’autocoscienza diffusa che, una volta appresa, diventa inaggirabile e in cui l’orientamento è dettato pensante di corpi in prossimità. Che trovano, grazie alla vicinanza, la relazione irriducibile con le proprie madri, non solo di sangue, e le proprie sorelle.

COME in I miei piccoli dispiaceri (2015), quando la sofferenza di chi ci è caro non può essere scalfita bensì innerva l’intensità verso le proprie simili. Elfreida e Yolandi, le due personagge del romanzo, affrontano l’esistenza salde della propria unione: «Sono sempre profondamente attratta dalle raffigurazioni delle sorelle – aggiunge Toews -. La mia, purtroppo defunta, era l’unica sorella che avevo. Di sei anni più grande, è stata la prima a ribellarsi e a lasciare la nostra comunità mennonita per frequentare l’università e per una vita in città; è stata lei a mostrarmi come potevo liberarmi, attraverso l’istruzione ma anche grazie all’arte e la lettura. Portava i libri fino a casa per farmi leggere, libri che avrebbe studiato poi durante i suoi corsi. Per esempio, mi ha fatto conoscere la grande letteratura femminista, in particolare Alice Munro e Margaret Atwood. E Sylvia Plath così come altre poete passando poi per Dostoevskij e John Steinbeck. Mi ha aiutata a vedere un altro modo di stare nel mondo, altre possibilità di guardare il circostante, aprendomi la mente e allargando l’orizzonte». E la luce silenziosa fa il suo ingresso a scaldare una presa di parola che è grande come un cielo gravido di promesse, quando – ci spiega Miriam Toews -, «il desiderio, letterario e umano, anche se non si riescono a definire facilmente gli orli, è quello della libertà».

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Da oggi fino a sabato 12 ottobre la scrittrice parteciperà a tre Festival: Firenze, Milano e Roma

Miriam Toews, di cui è stato appena pubblicato – per Marcos y Marcos nella traduzione di Claudia Tarolo – «La mia estate fortunata» (suo romanzo d’esordio) sarà ospite in Italia da oggi al 12 per partecipare a tre festival letterari. Oggi a Firenze (Teatro della Pergola, Saloncino della Pergola), sarà ospite del festival «Eredità delle donne», in dialogo con Geppi Cucciari. Mercoledì 9 ottobre sarà invece a Milano (al Memo Restaurant di via Monte Ortigara 30) nell’ambito del «Zacapa Noir Festival» con Valeria Parrella (info e prenotazioni su www.zacapanoirfestival.it). Miriam Toews concluderà il tour a Roma (Palco Cinema Avorio di via Macerata), sabato 12 in conversazione con Sabina Minardi.