Dopo il varo dei dazi Usa sui prodotti cinesi per un valore di 60 miliardi di dollari, arriva la risposta di Pechino: barriere all’ingresso per 128 prodotti americani. Divisi in due gruppi: dazi al 15% per frutta, vino, etanolo o ginseng; al 25%, carne suina e alluminio riciclato. Tre miliardi il valore complessivo, stando ai flussi monetari del 2017.

Al momento, però, più che di contromisura, sarebbe più corretto parlare di avvertimento.

Non solo perché c’è un’evidente sproporzione finanziaria tra le due manovre (tre miliardi contro sessanta), ma soprattutto perché nella lista non ci sono quei prodotti che potrebbero davvero far male all’economia americana, come i semi di soia, ad esempio, che costituiscono il primo prodotto di esportazione americano verso la Cina, per un valore che nel 2016 ha superato i 14 miliardi di dollari.

Al di là di come evolverà questa guerra commerciale, comunque, rimane il fatto che il mercato mondiale sta per entrare in una nuova fase. Da decenni, il mercato americano sta fungendo da domanda di ultima istanza per beni e servizi europei ed asiatici, in cambio del finanziamento del proprio debito pubblico (e dei consumi interni).

Un quadro che si è maggiormente strutturato, ed ampliato, con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nel 2001.

Ogni anno, gli americani importano dal resto del mondo merci e servizi per un valore che supera di 600-700 miliardi di dollari quello delle sue esportazioni (783 miliardi nel 2016). In questo modo, danno una mano alla crescita globale, ma, come è facile capire, sopportano anche un peso enorme in termini finanziari e produttivi. Il prezzo da pagare per il proprio ruolo di superpotenza, si è sempre detto, ma ora qualche nodo è venuto al pettine.

Diamo qualche cifra.

Dal 2009 ad oggi, il disavanzo commerciale degli Stati uniti verso l’Unione europea si è quasi raddoppiato, raggiungendo i 150 miliardi di dollari.

Più vistoso, indicativo, quello verso la Cina, che nel 2017 ha chiuso sopra i 275 miliardi. Oggi, il 65% dell’attivo commerciale cinese (422 miliardi nell’anno appena trascorso) è con gli Stati uniti d’America.

A tutto questo, fanno da contrappeso 6.250 miliardi di dollari di titoli del debito pubblico americano in mani straniere, di cui 1200 circa nelle mani della sola Cina.

Se Pechino decidesse di vendere i Treasury in suo possesso, ovvero di non comprarne più, per gli Usa sarebbero guai seri.

Non solo. La Cina può aggiungere sul piatto della bilancia anche 3000 miliardi di riserve valutarie denominate nella divisa statunitense, che possono essere usate sia come deterrente sia – in teoria – come arma di offesa.

Finora, l’equilibrio è stato garantito dalla forza militare degli Stati uniti, soverchiante rispetto alla Cina e a qualsiasi altro paese del mondo.

Ma anche su questo versante qualcosa sta cambiando. La nuova politica di Xi Jinping sta riguardando anche il comparto militare-industriale, con l’obiettivo di fare della Cina una superpotenza anche in questo ambito. Per il 2018, infatti, le spese militari cinesi aumenteranno dell’8,1% (1,1% in più rispetto all’aumento dell’anno precedente), passando da 151 a 175 miliardi di dollari.

Fatto che non è passato inosservato a Washington, dove aumenta il fastidio per i successi che la Cina sta mietendo anche sul versante geopolitico, come dimostrano, tra gli altri, i recenti sviluppi della questione coreana e gli smarcamenti di Seul.

Trump, da parte sua, ha pensato bene, nel frattempo, di addolcire i rapporti con l’Unione europea, sospendendo la decisione di tassare alluminio e acciaio proveniente dai paesi membri. Un modo per coprirsi le spalle in vista di una trattativa con Pechino, che rimane, verosimilmente, il suo vero obiettivo.

Ma a Bruxelles rimangono forti le perplessità sulla linea americana.

Il timore è che la strategia di Trump, al netto degli effetti negativi sulla stessa economia americana, potrebbe innescare, a dieci anni dalla gravissima crisi dei subprime, una spirale pericolosissima, col rischio di una nuova recessione globale. Ne è convinto Mario Draghi, secondo cui il «protezionismo commerciale oggi è il rischio più grande».

Intanto, la contromossa cinese qualche effetto l’ha provocato: si torna al tavolo negoziale. Monito sagace del ministro al Commercio di Pechino Zhong Shan: «Il dialogo e la cooperazione funzionano».