Dopo quasi trent’anni dall’ultima mostra dedicata alla dinastia dei Farnese (I Farnese: arte e collezionismo, Palazzo Ducale di Colorno, 1995), quella apertasi al Complesso Monumentale della Pilotta dal titolo I Farnese Architettura, Arte, Potere (fino al 31 luglio), ha il grande merito non solo di ripercorrere le vicende storiche e artistiche di una tra le più importanti e longeve dinastie che hanno segnato la cultura europea tra Cinque e Settecento, ma anche di conoscere quale intenso lavoro sia stato intrapreso negli ultimi anni alla Pilotta, tra recupero di nuovi ambienti espositivi e restauri. La mostra parmense aggiorna, però, anche gli studi secondo quel «decentramento dello sguardo» che come ha rilevato Simone Verde, direttore del Complesso Monumentale, ha significato in parte rivedere con altri criteri giudizi consolidati, come dimostrano i numerosi saggi raccolti nel voluminoso catalogo (Electa)

IL PERCORSO ESPOSITIVO parte dai Voltoni del Guazzatoio, dove è illustrata l’accorta politica di Alessandro Farnese (1468-1549), papa all’età di sessantasei anni con il nome di Paolo III e dal quale ha avvio la dinastia vera e propria. Egli ereditò una Chiesa in gravi difficoltà di cui il Sacco dei lanzichenecchi (1527) insieme allo scisma protestante furono gli avvenimenti più importanti, senza contare le conseguenze della scoperta del «mondo globale» dopo l’esplorazione di Cristoforo Colombo e la questione che apriva dell’evangelizzazione del nuovo continente.
Si mosse, quindi, con grande abilità ponendosi neutrale tra le contese politico-militari di Carlo V e Francesco I. I suoi maggiori interessi, tuttavia, furono rivolti a combinare una complicata strategia famigliare, indirizzata a dare uno stato a Pier Luigi Farnese, primogenito dei suoi quattro figli (Costanza, Ranuccio, Paolo): il ducato di Parma e Piacenza creato nel 1545 (lo stesso anno del Concilio di Trento) con l’anomala alienazione delle due città dai possedimenti della Chiesa. Perseguì, inoltre, con determinazione il disegno nepotistico eleggendo cardinali il figlio di Pier Luigi, Alessandro e quello di Costanza, Guido Ascanio Sforza.

IL «VINCOLO INDISSOLUBILE» di regnum e sacerdotium, che come scrisse Roberto Zapperi (1990) da un lato rendeva il pontefice «un supermonarca che dettava legge a tutti i re» e dall’altro l’arbitro del «dominio su un vasto agglomerato di possedimenti», è esemplato in pittura negli affreschi che Taddeo Zuccari fece nel Palazzo di Caprarola (Paolo III riceve Carlo V reduce da Tunisi) o di Giorgio Vasari nel Palazzo romano della Cancelleria. Mentre il severo esercizio ecclesiastico è delineato nel più importante dipinto del Tiziano, il Ritratto di Paolo III con i nipoti (1546), non presente in mostra, ma supplito con altri quadri del pittore cadorino provenienti dal Museo nazionale di Capodimonte: il Ritratto di Paolo III senza camauro (1543), il Ritratto di Pier Luigi Farnese (1546) e la Danae (1545).
Il secondo ambiente della mostra è la Galleria Petitot della Biblioteca Palatina, dove i dipinti tizianeschi esemplificano insieme a quelli di Annibale Carracci, Correggio, Sebastiano del Piombo, El Greco, ai due busti del Bernini che ritraggono Ranuccio II, oggetti d’arte (la Tazza Farnese in agata sardonica appartenuta a Lorenzo il Magnifico) e antichità archeologiche, l’eccezionale levatura di mecenati e collezionisti dei Farnese.

ALLE ARTI CONSEGNARONO il compito di mostrare la loro potenza teologica e politica. Tuttavia è nella visibilità monumentale dell’architettura che meglio si configura il potere farnesiano che come per ogni corte manierista si componeva di una precisa strategia di «mascheramento coreografico» (Battisti) volta a modificare simbolicamente l’iconografia urbana.
È, infatti, nell’imponente attività edificatoria intrapresa dai Farnese ciò che la mostra indaga con cura attraverso un numero rilevante di disegni di architettura descrittivi dei palazzi nella Tuscia (Gradoli, Caprarola), dalla quale i Farnese provenivano quali piccoli nobili, e di quelli ducali di Parma e Piacenza, ma soprattutto testimonianza degli episodi edilizi a Roma, dove Paolo III sarà protagonista con un intenso programma di trasformazione urbana, di certo superiore al «tono minore» di Clemente VII che lo precedette e paragonabile solo alla Renovatio Urbis di Giulio II e Leone X.

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NELL’«OFFICINA FARNESIANA», composta di personalità di spicco tra artisti e letterati, da Michelangiolo ad Annibal Caro, dal Vasari a Paolo Giovio, l’architettura sarà tra le forme artistiche quella incisiva nel segnare il nuovo corso pontificio. Come, infatti, scrisse Tafuri: «il papa romano occupa Roma: e in modo letterale».
Lo fa aprendo nuovi assi viari e configurando il tridente di Piazza del Popolo con l’attuale via del Babbuino. Avvalendosi di Antonio da Sangallo il giovane, darà impulso per completare svariati cantieri: il suo palazzo romano, collegandolo a Piazza Navona con l’apertura di via dei Baullari ad esso ortogonale, San Pietro e il Belvedere con la costruzione della Sala Regia e della Cappella Paolina, il Campidoglio con la disposizione della statua di Marco Aurelio al centro della piazza capitolina e la villa fortificata, demolita per lasciare il posto al Vittoriano, collegata alla sua residenza estiva di Palazzo San Marco.
Non di minore intensità fu l’azione farnesiana in edifici pubblici e religiosi nella campagna viterbese e nei centri minori di Nepi e Castro ai quali, sul finire degli anni Trenta, s’«imprimesse un volto da città ducale» (Barbara Agosti). Di lì a meno di un decennio dopo, accertata la volontà di Carlo V di non concedere il Milanese al Duca Pier Luigi, ecco trasformate in capitali Piacenza e Parma: la prima, con la costruzione di una fortezza pentagonale e molti anni dopo, ritornata in possesso del Duca Ottavio, figlio di Pier Luigi ucciso nel violento contenzioso con l’Imperatore per il possesso del feudo piacentino, il monumentale e «tetragono Palazzo Farnese: quasi estraneo alla città» (Bruno Adorni) e «splendidamente modificato» da Jacopo Vignola.

A PARMA, INVECE, agli inizi degli anni Sessanta, Ottavio, figlio di Pier Luigi, una volta normalizzata la situazione politica sul piano dei conflitti tra le potenze europee, dà avvio alla costruzione del Palazzo del Giardino in un luogo esterno dal centro urbano, oltre il torrente, modificando una rocca visconteo-sforzesca e disponendo un vasto giardino che rinvia agli Orti farnesiani sul Palatino.
Sarà Ranuccio I, nipote di Ottavio, a magnificare la capitale del ducato proseguendo la costruzione del Palazzo della Pilotta intrapresa dallo zio. Il lungo braccio rettilineo su pilastri (Corridore) di collegamento tra il Palazzo Ducale e il Palazzo del Giardino, fu dotato di scuderie e di un salone che poi sarà trasformato nel Teatro Farnese. La monumentale architettura, rimarrà non finita, nello stato che conosciamo, conclusa nel 1611 la prima fase dei lavori.
Non è semplice per il visitatore orientarsi fino in fondo tra discendenze e intrecci familiari dei quali si compone la dinastia Farnese. In particolare seguire il corso degli eventi che per quasi due secoli hanno visto succedersi sulla scena di Roma e nei due ducati di Parma e Piacenza e di Castro, una pluralità di architetti e artisti che dal Rinascimento arriva alla prima età del Barocco.

ALTRETTANTO COMPLICATO è in un’esposizione restituire i passaggi della costruzione dell’identità politica e culturale di una dinastia «all’italiana» (Merlotti), intenta da un lato a contrastare l’assolutismo monarchico e dall’altro a competere con esso attraverso il più smodato nepotismo e una ricerca di parentele (dagli Asburgo ai Valois) proprio con i sovrani europei che voleva contrastare.
Alle contraddizioni si rispose con la «verosimiglianza» delle arti della figurazione. Come nell’allegoria dell’Ercole al bivio di Annibale Carracci (1596), la grande tela che chiude la mostra. La figura mitologica romana con la quale i Farnese si identificavano, è seduta tra due donne e l’eroe ascolta quanto le indica quella che personifica la Virtù, tralasciando la Voluttà dell’altra. Siamo davanti a un esercizio di dissimulazione, ma che non può «persuadere». Solo, infatti, l’«argomento architettonico», come scrisse Argan, è in grado di farlo. Anche i Farnese ne erano convinti e così nello «spazio-ambiente» di città e di vasti territori, con realismo e spregiudicatezza, dimostrarono come si soddisfa l’ambizione religiosa e politica.