Scrivere di Amos Oz, vivace scrittore come anche stimato opinion leader, non è facile. La sua opera letteraria lo sovrasta, essendo destinata a sopravvivergli. Il campo di tensioni che la attraversa è tale da fare sì che tutto quanto sia in essa contenuto debordi immediatamente, fuoriuscendo da qualsiasi contenitore che ne cerchi di trattenere i significati in misura troppo razionalizzante.

OZ SI IDENTIFICA in pieno con la sua produzione letteraria che è, al medesimo tempo, autobiografica, essendo un esercizio di catarsi che molto ha a che fare con il bisogno di sopravvivere, ma anche e soprattutto biografica, laddove racconta, quanto e meglio di molti suoi contemporanei, quella storia collettiva che va sotto il nome di Israele. Di quanto egli si fosse speso, nel limite del suo ruolo intellettuale, per una negoziazione attiva nel rapporto con la controparte palestinese, è fatto risaputo. Meno inteso e conosciuto, soprattutto dal pubblico italiano, è invece il suo essere un vero e proprio prisma della coscienza israeliana, nelle sue molteplici manifestazioni. La contestualizzazione storica è quindi fondamentale per comprendere di chi si stia parlando.

LA NASCITA a Gerusalemme, nel 1939, lo fa troppo giovane per essere protagonista attivo degli anni della fondazione dello stato. Vive tuttavia il dissidio interno a una famiglia originaria dell’Europa orientale, impiantatasi nella Palestina mandataria, dove il rapporto con l’identità politica e quella religiosa sono due pilastri critici, e quindi problematici, nella formulazione della propria cittadinanza. Al pari di molti suoi connazionali. La sua maturazione culturale e intellettuale attraversa quindi il primo trentennio della storia del paese, dal 1948 in poi. Ne vive le tensioni, le speranze, i timori ma, soprattutto, l’enorme progettualità. La dimensione utopica è un tratto che fa spesso capolino nella sua scrittura, altrimenti informata a un realismo ironico e immaginifico, dove la trasfigurazione del desiderio e la cognizione del limite della perdita (incarnata innanzitutto dalla prematura morte della madre, suicidatasi quando era ancora adolescente) si proiettano nell’esigenza di mediare sempre e comunque. Mediare con la dura realtà dei fatti, mediare con la potenza dei propri bisogni, affrontare la violenza delle angosce. Mediare anche con l’immagine del padre, severa coscienza della quale ne aveva rifiutato buona parte dei giudizi. Al pari degli acerbi israeliani di quegli anni, che andavano confrontandosi con un complesso e stratificato processo di costruzione di un’identità comune che nasceva perlopiù dalla discontinuità con il patrimonio della Diaspora.

COSÌ FACENDO, e scrivendo, Amos Oz si candidò ben presto a divenire una delle coscienze intellettuali della cultura politica laburista israeliana della quale, concretamente, non ha mai dismesso per davvero i panni fino all’ultimo dei suoi giorni. Neanche nei decenni a noi più prossimi, quando quest’ultima ha invece subito gli esiti perdenti del duro confronto con il suo antagonista di sempre, il sionismo di matrice revisionista, altro polo dell’«essere israeliani». La sua capacità è quindi quella di rendere, attraverso la ricostruzione antiretorica di un’epoca di genesi ed edificazione, la dimensione epica delle passioni quotidiane. La sua concezione della politica si informa a questo tratto, apparentemente cortese e garbato ma che nasconde, a volte quasi con difficoltà, la durezza metallica del confronto con la forza dei fatti.

LA STESSA DIFFICOLTÀ che vive, sulla sua pelle, di svolgere lavori manuali nel kibbutz nel quale risiede, in parte poi sopperita dal suo progressivo affermarsi come autore di letteratura, richiama il bipolarismo dialettico tra coscienza e azione, che è parte fondamentale del dibattito politico israeliano. Oz si dovrà confrontare poi con gli anni del mutamento, quelli che dal 1967, con gli esiti della Guerra dei sei giorni, apriranno una serie di questioni che sono a tutt’oggi ancora lontane dall’essere risolte nell’agenda politica del suo Paese. Ancorché conosciuto all’estero come «coscienza critica», in realtà la sua visione della contemporaneità è stata ispirata soprattutto a una concezione problematizzante, rifiutando soprattutto le scorciatoie degli identitarismi, dei fanatismi ma anche dei romaticismi.

ANCHE PER QUESTO, rispetto ai temi aperti nel dibattito israeliano, ha offerto interpretazioni e soluzioni selettive, poco o nulla ispirate a un approccio puramente pacifista. Una tale visione delle cose, d’altro canto, da sempre lo ispira e lo motiva nel suo patriottismo costituzionale, interrogandosi ripetutamente sul senso della lealtà ad istituzioni collettive di cui egli stesso si è sempre considerato parte integrante, quindi corresponsabile moralmente oltre che politicamente. La stima di cui ha goduto in Israele è anche il riflesso di questa posizione molto netta, fortemente ancorata al tentativo di rappresentarne il pluralismo delle culture che compongono la società nazionale.