Ieri è stato il giorno di Call Me by Your Name, il nuovo film di Luca Guadagnino (nel frattempo già sul set del remake di Suspiria), che è anche l’unico titolo italiano della Berlinale – nella sezione Panorama Special dopo l’anteprima al Sundance (ne ha parlato su queste pagine Giulia D’Agnolo Vallan): il racconto di un’estate del 1983, e di un amore vissuto con l’impeto assoluto dell’adolescenza come scoperta del corpo, dell’erotismo, della seduzione. Un ragazzino e un giovane uomo poco più grande di lui, amico dei genitori, che li ha raggiunti in Italia dove si trasferiscono per lunghe vacanze. Una casa elegante, piena di libri, il padre archeologo (Michael Sruhlbarg), la mamma (Amira Casar) bella e svagata, il rito della pigrizia morbida estiva, delle prime volte con le amiche di ogni bella stagione che sono ormai cresciute. Ed è tra queste stanze, porte aperte, porte chiuse, sguardi fugaci, carezze inconsapevoli e la campagna assolata di lunghe corse in bicicletta che cresce l’attrazione tra il sedicenne Elio, figlio dei padroni di casa (Timothèe Chamalet) e Oliver (Armie Hammer) il biondo ospite americano, oggetto del desiderio goffamente inconsapevole di sé.

Una traiettoria  che la regia di Guadagnino restituisce in passaggi inattesi, con dolcezza, spavento e tumulto, accompagnando il movimento del desiderio. Nella grana sensuale – grazie alla luce meravigliosa di Sayombhu Mukdeeprom – Guadagnino riesce a sorprendere la sua materia, il racconto di formazione, l’attrazione tra un giovane e uno più grande (con reminiscenze immediate di Lolita), grazie alla capacità di infondere nella narrazione gli «oggetti» amati dell’immaginario. E se il romanzo di André Aciman è stato – come ha raccontato lui stesso – soprattutto una guida, la sceneggiatura sua, di Walter Fasano (anche montatore) e di James Ivory ha disseminato con leggerezza nel film qualcosa di ciascuno degli autori, una dimensione poetica, intima resa gesto di cinema.
La stessa sorpresa si prova davanti al film di Sebastián Lelio, il regista di Gloria vincitore qui alla Berlinale due anni fa dell’Orso d’argento per la migliore attrice, Paulina Garcìa. Siamo all’opposto come ambienti, atmosfere familiari, personaggi, idee di regia del film di Guadagnino, in comune però i due registi (e i reciproci film) hanno appunto la sapienza di lavorare su codici riconoscibili per scompigliarli senza clamori o forzature di stile ma accompagnando con amore i propri personaggi.

La storia di Una mujer fantstica (concorso), prodotto da Pablo Larrain e Maren Ade di per sè è semplice, ci dice infatti di quanto può essere terribile la posizione dell’amante di fronte alla famiglia, alla moglie (in questo caso) che anche se ex continua a avere ogni diritto in virtù del contratto matrimoniale, ai rancori dei figli, all’astio malcelato delle istituzioni, agli sguardi di rimprovero dei propri amici… Figuriamoci poi se lui muore all’improvviso e a portarlo in ospedale è lei, molto più giovane,scandalosa solo con la sua presenza. È quanto accade al protagonista Orlando (Franciaco Reyes), borghesia imprenditoriale cilena, che un aneurisma stronca la sera del compleanno della sua giovane amica, Marina. E a complicare le cose la ragazza è in realtà un ragazzo, un transessuale, ragione che moltiplica l’astio vendicativo dei familiari incapaci di comprendere la scelta paterna.

Marina da quel momento deve scomparire, è un errore da cancellare: la cacciano di casa, le tolgono l’automobile, le mandano la buon costume, la caricano in macchina – con un gesto che rimanda a quello dei torturatori del regime di Pinochet – per picchiarla… Lei non ha diritto a essere al funerale, non deve mostrarsi mai più. Lelio restituisce un ritratto feroce della classe borghese e delle sue rivendicazione mai affrancata dai legami coi poteri anche quelli più sanguinari della dittatura, ma il suo centro rimane lei, Marina splendidamente incarnata da Daniela Vega, è la sua presenza che permea il film di fascino e di mistero rovesciando i cliché potrebbero soffocarlo.

L’ambiguità sessuale di Marina diviene l’ambiguità del film, ne modella la sostanza spostando ogni riferimento nella dimensione del desiderio in un modo per tutti gli altri insostenibile. Estranea a quel mondo Marina mantiene il suo segreto,e con lei il regista che la filma senza mai mostrarne il sesso, quello che tutti vogliono sapere volgarmente.E questa dimensione che le permette di essere donna e uomo insieme, di passare da una parte e dall’altra, di essere quasi hitchcockianamente una «vertigo», una donna che visse due volte, diviene quella del film, fantasmagoria intelligente di crudeltà e tenerezza.