Giovanni Durbiano è un architetto torinese che da tanti anni insegna progettazione al Politecnico. Recentemente si è impegnato con Alessandro Armando in una ricerca volta a ridefinire i contorni della professione del progettista, fino a dare nuovo senso e significato a parole come «responsabilità», «autore», «visione».
I risultati, decisivi per l’architettura italiana e internazionale, vengono ora raccolti nel volume Teoria del progetto architettonico (Carocci, pp. 527, euro 44).

«Più che al progettista – dice Durbiano, incontrato nel suo studio torinese – preferirei riferirmi al progetto, che è un oggetto più semplice da trattare. Se ci atteniamo a quanto si legge sui libri e sui giornali, al progetto sembra che non badi più nessuno. Si guarda alle opere, alle architetture: si scrive “bello”, “brutto”, “eco mostro”, oppure “capolavoro”, senza definire i criteri da cui partire per costruire il giudizio. Senza legare una posizione a una convenzione sociale e culturale più ampia».

In che senso il vostro volume riporta al centro del dibattito scientifico il ruolo e la responsabilità del progettista?
È un problema specifico della cultura architettonica nazionale, che non è più in grado di costruire categorie interpretative complessive, che non siano le poetiche architettoniche di un qualche supposto «maestro» locale. L’esito di questa assenza di un quadro di argomentazioni collettivamente condiviso produce un «laissez faire» che coinvolge tutte le istituzioni della cultura architettonica: dai giornali alla scuola, dalle scelte nei concorsi pubblici agli affidamenti degli incarichi professionali.
Nel libro cerchiamo di costruire una chiara misura delle responsabilità sociali che stanno dietro a un’architettura. E sosteniamo che il luogo dove essa si definisce è il progetto. La responsabilità del progetto è quella di mettere in ordine un sistema di fatti e valori, in modo da produrre degli effetti: che siano la costruzione o, come nell’urbanistica, una serie di norme.
Mettere al centro del dibattito il ruolo e la responsabilità del progettista non vuole dire richiamare il progettista al suo compito rispetto ad alcuni valori (la bellezza, l’ingiustizia sociale, la sostenibilità, la rete… e chi più ne ha, ne metta), ma riconoscere le condizioni convenzionali per cui il progetto può essere effettivo luogo di convergenza di fatti e valori socialmente rilevanti. La responsabilità del progettista oggi non è quella di indicare dove va il mondo, come si chiede di fare alle archistar che popolano i rotocalchi, ma di partecipare, attraverso la sua competenza di operatore socio tecnico (e quindi anche d’interprete simbolico), alla costruzione di un accordo tra istanze differenti dal perimetro variamente esteso.
Più il perimetro è ampio, e quindi considera aspetti di pubblico interesse, più l’accordo sarà complesso e ci sarà bisogno di competenze specifiche. Questa è – secondo noi – la responsabilità del progettista.

Come la progettazione, studiata come scienza autonoma nel senso del vostro libro, può portare a riconsiderare gli ultimi decenni dell’architettura italiana? 
Innanzitutto occorre intendersi sui termini. Se consideriamo l’«architettura italiana» l’intera produzione materiale di trasformazioni fisiche condotta sul suolo italiano negli ultimi decenni, e non – come vorrebbe una tradizione che risale a Croce – un ristretto numero di edifici esemplari di un dibattito culturale, allora dobbiamo modificare il modo di costruire i criteri di giudizio.
Quella che chiamiamo architettura italiana è l’esito di un’infinità di progetti che ha coinvolto un collettivo molto ampio, in cui i progettisti hanno una responsabilità certamente limitata. All’origine dell’attuale «architettura italiana» ci sono i conflitti e gli accordi che hanno segnato la nostra storia recente: la sconfitta di un’idea di tutela del suolo, il successo di una prospettiva di azione politica di corto raggio, la mutazione delle ideologie comunitarie, ma anche l’ombra della crisi economica.
L’architettura è la prima e più visibile faccia del mondo in cui viviamo. E la Teoria del progetto si propone di rendere discutibile e argomentabile la dimensione collettiva dell’azione del progetto sul mondo.