Le elezioni comunali hanno confermato quello che si aspettava: il brusco atterraggio nella realtà di Renzi e il decollo, non privo di nubi all’orizzonte, del M5S. Il record di astensioni sembra oscurato dal cambiamento dei rapporti di forza tra gli schieramenti politici. Il fatto che un italiano su due si è disinteressato alla gestione politica della sua vita quotidiana, stenta ad acquisire nella nostra percezione la sua minacciosa centralità.

È certamente improprio fare di tutte le astensioni un fascio. L’astensione è una scelta obbligata di fronte a opzioni ugualmente impraticabili. Inoltre, un certo tasso limitato di astensione è fisiologico in tutte le competizioni elettorali. Tuttavia, l’astensionismo di massa è da sempre l’indicatore più affidabile (poco considerato) delle correnti emotive di fuga dalle istituzioni che attraversano la società. Può essere espressione di malcontento (la delusione dissociata dalla speranza), di protesta senza rivendicazione (la rabbia votata al sentimento d’impotenza) o, cosa ben più insidiosa, di indifferenza.

Quando l’indifferenza alla gestione degli interessi comuni diventa quasi maggioritaria, la soglia d’allarme sulla tenuta democratica di un paese è superata. Il rigetto indifferente dei legame politico con la comunità di appartenenza, è segno dell’incapacità di deprimersi, di riconoscersi nel vissuto di perdita che accompagna i periodi di crisi, grami per i nostri desideri e progetti. L’apatia è un potente antidepressivo: neutralizza il lutto congelando la sensibilità al dolore e inibendo le emozioni che lo accolgono e gli danno espressione. La repressione dei sentimenti crea un’omologazione dei vissuti che può essere facilmente orientata verso la domanda di ordine. Specialmente se la sua natura è antidepressiva e rifugge l’effetto destabilizzante di cui è causa la perdita. Il fenomeno dell’astensione in Italia sta prendendo proporzioni e forme evidenzianti un paese manipolabile in senso autoritario.

In questo quadro preoccupante, l’affermazione di De Magistris a Napoli, indica una tendenza opposta, che seppur minoritaria, offre una reazione psicologica positiva all’impasse in cui siamo finiti e la possibilità di uno sbocco democratico. Alla metà del suo mandato, quando la gestione della città, dalla raccolta differenziata dei rifiuti al “lungomare liberato”, sembrava che gli sfuggisse di mano, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla rielezione dell’ex magistrato. Poco mancò poi che fosse defenestrato, per effetto della legge Severino, usata come arma impropria. Invece, De Magistris ha trionfato, contro i tre schieramenti politici che si ripartiscono il consenso della metà degli italiani, quelli che votano.

È successo che, alla lunga, De Magistris sia apparso a una parte consistente dei Napoletani, la netta maggioranza tra coloro che nella società civile ancora credono, come una scelta in difesa della loro dignità. In un momento in cui il nostro maggior lutto deriva dal sentirsi orfani di una prospettiva di cambiamento, a Napoli si è pensato che la cosa migliore fosse vivere con umile saggezza l’impoverimento. Non perdersi in faraonici progetti di ulteriore perturbamento del tessuto urbanistico già lacerato della città, ma rendere vivibili i suoi spazi, liberati a una vita comunitaria. Imbiancare la propria casa, arredarla con oggetti non di grande valore ma caldi, abbellire le sue finestre con i fiori, è meglio che fantasticare ambienti futuristici velleitari. La dignità non è vivere senza colpa o vergogna, ma con senso di responsabilità: salvare il buono di oggi in attesa di tempi migliori domani.