Adesso è ufficiale: i russi hanno influenzato le elezioni presidenziali americane. Scandalo. Orrore. Editoriali a valanga. Gli esempi tratti dalle recenti elezioni presidenziali basterebbero a riempire un’enciclopedia: su Facebook la bufala che Papa Francesco aveva dato il suo sostegno a Trump ha avuto un milione di condivisioni, quella che Obama voleva vietare il giuramento di fedeltà alla bandiera americana ha raccolto più di due milioni tra commenti e condivisioni, quella che un agente dell’Fbi trovato ucciso fosse sospettato di aver passato le email di Hillary Clinton mezzo milione di like.

Gli opinionisti insorgono: «Purifichiamo il web!», «Controlliamo, verifichiamo!», «Aux armes, citoyens!» Viene da chiedersi, però, per quale motivo i difensori del giornalismo di qualità non siano saliti sulle barricate negli anni scorsi leggendo titoli come «Abramo Lincoln era una donna» (Weekly World News), «Hillary ha sei mesi di vita» (National Enquirer) o, più politicamente rilevante, «1,3 milioni di immigrati hanno rubato tutti i nostri posti di lavoro» (Daily Star). Sono quelli che un tempo venivano chiamati tabloid da supermercato perché venivano venduti, appunto, alle casse dei grandi magazzini e non nelle edicole, ma della loro influenza si parla almeno da vent’anni: il famoso caso Lewinsky, che condusse all’impeachment di Bill Clinton nacque su un sito di pettegolezzi scandalistici, il Matt Drudge Report, e poi trovò alimento nei giornali «seri».

Come nel 2016 con Trump, nel 1998 non ci fu alcuna paratia stagna tra giornalismo cosiddetto di qualità e siti internet inventori di bufale, e la ragione era molto semplice: gli stessi grandi giornali avevano scelto di competere sul mercato dei pettegolezzi. Già allora la velocità con cui comparivano le notizie on line aveva rimodellato tutti i media, costringendoli ad un ritmo di funzionamento frenetico e unificando di colpo il mercato dell’informazione, precipitando siti web, quotidiani nazionali, quotidiani locali, settimanali, radio e televisione in un unico calderone informativo.

Tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri: Washington Post e New York Times, da una parte Breitbart News e Fox News dall’altra. Se internet ha cambiato le regole del gioco, questo non è certo avvenuto di colpo: la comunicazione diretta sotto forma di blog e siti improvvisati era in grado di saltare la mediazione dei giornalisti già vent’anni fa. Ovviamente, con Facebook e Twitter tutto è più facile e più rapido.

Se questo accade, però, non è colpa di Putin, né degli hacker rumeni: il problema sta nelle debolezze strutturali del giornalismo americano. La prima è che l’industria editoriale, in una società capitalistica, esiste in quanto fa profitti, o almeno perdite non eccessive, e i giornalisti, prima di essere paladini dell’informazione, sono umili salariati che si occupano di ciò che l’editore e il direttore decidono.

Se la proprietà vuole dare credito alle bugie governative sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, non saranno né il giovane cronista né il prestigioso editorialista a rovesciare la situazione. Il giornalismo mainstream vive in un rapporto incestuoso con il potere politico per ragioni di efficienza industriale, non per servilismo o cattiveria: semplicemente non si possono fare giornali come Washington Post e New York Times se le fonti governative non collaborano. Lo ha ben capito l’Huffington Post che, dopo aver attaccato Trump per mesi e mesi, dopo la sua elezione ha cambiato bruscamente rotta.

Questa situazione è all’origine di un altro fenomeno apparentemente incomprensibile: l’impopolarità di giornali e giornalisti. Quando Trump twitta contro i«media disonesti» va a toccare una corda sensibile dell’opinione pubblica, che già nel 1998 si diceva convinta che i quotidiani «drammatizzano alcune storie solo per vendere di più» (85% degli intervistati) e che «i giornalisti inventano in tutto o in parte ciò che scrivono» (66%). La diffidenza verso la grande stampa ha radici antiche nell’America rurale, quella ignorata dai cronisti, e il successo dei siti alternativi, compresi quelli che sfornano bugie a raffica, è la conseguenza di un risentimento profondo contro l’establishment.

La terza debolezza del giornalismo americano è la sua ossessione per le dichiarazioni dei politici, tanto più pubblicizzate, analizzate, sfruttate, quanto più sono clamorose. «Trump è dannatamente buono per gli indici di ascolto» diceva nel febbraio scorso Leslie Moonves, il presidente della rete televisiva Cbs.

Da uomo di spettacolo, Trump aveva capito perfettamente che ogni giorno occorreva dare alle televisioni ciò che chiedevano e rincarava la dose. Quelle che ai giornalisti apparivano proposte insensate (far pagare al Messico il muro da costruire sul confine) erano in realtà abili provocazioni per mantenere alta l’attenzione e catturare anche lo spettatore distratto o marginale.

Secondo uno specialista di monitoraggio dei programmi televisivi, Andrew Tyndall, citato da Nicholas Kristof sul New York Times, nei telegiornali della sera del 2016 il tempo dedicato alla povertà, al cambiamento climatico o alla dipendenza da stupefacenti è stato esattamente di zero minuti. I grandi media sono stati letteralmente ipnotizzati da Trump, dalle sue accuse, dalle sue buffonate, dalle sue minacce.

Ora tutti si chiedono cosa fare, come impedire che le campagne elettorali diventino di nuovo un festival di esagerazioni e menzogne. Purtroppo non ci sono soluzioni semplici, tanto più in una società politicamente divisa e antagonista come quella americana: non saranno i ritocchi agli algoritmi di Facebook a risolvere il problema. Chi vuole credere che Obama è nato in Kenya o che Hillary Clinton protegge un’organizzazione di pedofili continuerà a crederci, soprattutto se i rispettabili Fox News e Wall Street Journal di Rupert Murdoch continueranno a lanciare il sasso e nascondere la mano.