Lo scrisse Siegfried Giedion nel suo Breviario di architettura (1956) che i valori estetici ci influenzano. «Essi irradiano dall’oggetto, come dai fiori o dai cibi esalano i profumi» e nell’architettura, alla pari che nelle arti visive e plastiche, «agiscono direttamente sui sentimenti».
Lorenzo Dall’Olio, architetto e docente presso il Dipartimento di architettura dell’università Romatre, con il suo saggio Semplicità, Riflessioni su una dimensione dell’architettura (Christian Marinotti Edizioni, pp. 253, euro 25) ha voluto stabilire non solo l’importanza che riveste la ricerca estetico-formale nella rappresentazione dei contenuti utilitaristici e funzionali dell’architettura contemporanea, ma anche come nella distinzione tra le forme espressive denotate di «semplicità» e quelle della «complessità», le prime siano da preferire per molteplici ragioni di carattere storico, teorico ed etico.

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L’AUTORE CI ILLUSTRA, secondo diversi registri, cosa siano «le vie della semplicità», quale «periglioso viaggio» vada intrapreso per conoscerle, soprattutto quanto facile sia trovarsi di fronte al banale nella restituzione spaziale dei problemi posti sia dall’abitare sia dalla realtà urbana.
La storia ha dimostrato come la «semplicità» sia stata l’assillo di tutti i tempi passati. Se ne ha traccia nella trattatistica che va da Vitruvio a Quatremere de Quincy, ma in particolare negli scritti dei «pionieri» della modernità architettonica e dei «grandi maestri» (Le Corbusier, Mies van der Rohe, Gropius).
È il termine probabilmente più impiegato quale sinonimo della razionalità. La razionalità che Hermann Broch assimilava al «polo del ’bene’», fondato su «solide gerarchie di valori» e assediato da quello del «male». Una tensione tra opposti che occupa la filosofia di Nietzsche e Kierkegaard, ma che Broch vide rilevarsi nel Kitsch per il quale il «bello è ciò che piace» e null’altro. Nelle pagine di Dall’Olio riverbera questo conflitto quando tratta dei «territori della complessità» nei quali «tutto appare equivalente e momentaneo, nessun valore resiste, a nessun presunto valore si chiede una verifica».
La sua indagine è condotta fino alle tesi di Venturi, Alexander e Friedman, coloro che per l’autore, forse più di altri, misero in discussione la tradizione del Movimento Moderno, a riprova che la «semplicità» non risiede in un canone. Praticarla nella Babele dei linguaggi dell’architettura contemporanea dove relativismo, arbitrarietà, decadimento e disagio si manifestano in ciò che lo storico statunitense Anthony Vidler ha definito l’«informe», è un compito difficile e i motivi non ricadono tutti all’interno dell’attuale cultura architettonica. Gli architetti, infatti, dovrebbero confrontare con più impegno le loro tesi con altri saperi e conoscenze: per prime la filosofia e la politica.

DALL’OLIO, TUTTAVIA, confida con fiducia che possa avanzare un’«idea di chiarezza» nell’architettura purché misurata sul contenimento delle risorse, impostata con metodo, mirata all’unità della forma. Le regole sono quelle che ritrova nelle Lezioni americane di Italo Calvino. I riferimenti affinché l’architettura comunichi i suoi valori estetici e morali sono già lì contenuti basta riprenderli: la Leggerezza, come «mobilità dell’intelligenza», l’Esattezza, come ricerca di elementi «ben calcolati», la Rapidità come sostegno alle intuizioni, la Visibilità come selezione d’immagini «icastiche», la Molteplicità come sperimentazione d’infinite «potenzialità» espressive, infine la Consistenza, come «durata» di ciò che «ci accompagna nel tempo senza assordarci». È fuori discussione che l’impresa sia urgente e necessaria, pure se per nulla «semplice».