È un impasto di vita e amore, di silenzi e profumi quello che corre tra la generazione di coloro che hanno vissuto la guerra e le persecuzioni antiebraiche – che ne hanno patito direttamente l’onta e le ferite – e la generazione di quelli «nati dopo», figli o nipoti. Un confronto serrato che interroga il nodo su cosa fare della memoria della Shoah dopo la scomparsa dell’ultimo testimone.

A VOLTE, È UN GROVIGLIO talmente inestricabile che le biografie – nonostante ci siano anni a separarle – rischiano di intrecciarsi ed è la scrittura stessa a divenire atto di libertà: «Noi figli dei sopravvissuti alle camere a gas di Birkenau non siamo normali – scrive Emanuele Fiano, deputato del Pd, in Il profumo di mio padre, l’eredità di un figlio della Shoah (edito da Piemme con prefazione di Liliana Segre, pp.192, euro 17,50) – lo sa bene la mia amata moglie e lo sanno i miei amati figli e forse le mogli di tutti i figli della Shoah e i loro figli». L’intreccio tra la vita di Emanuele e suo padre Nedo – scomparso a dicembre, uno dei più attivi testimoni della Shoah – è così forte che la biografia del figlio si trasforma in presa di parola del genitore e viceversa. «Non abbiamo ascoltato solo parole dolci e tenere dai nostri padri – scrive declinandosi in quel plurale dei ’nati dopo’ – non solo favole ci è capitato di ascoltare ma il silenzio impastato di lacrime e urla».

DIVERSA, PIÙ MEDITATA e mediata, la declinazione che ne offre Lisa Ginzburg nella postfazione di Pensate sempre che siete uomini, una lunga intervista del 2000 a Piero Terracina – ex deportato nei campi di sterminio nazisti, morto un anno fa – e oggi proposta da Ponte alle Grazie (pp.112, euro 12). «Piero Terracina era un sopravvissuto, il primo che avessi occasione di ascoltare; l’intervista mi permetteva di tornare a qualcosa della mia biografia (…) È stato grazie a quell’incontro che mi sono avvicinata a una parte della mia storia di cui ero pochissimo cosciente, un’origine sino ad allora messa male a fuoco, solo per supposizioni fuggevoli, approssimate senza alcuna consapevolezza». Ginzburg dà conto di un doppio registro della memoria famigliare che riflette la storia della memoria collettiva di questo paese: «Sono quella che si può definire un’ebrea di terza generazione, figlia di figli delle vittime dell’Olocausto in forma diretta (o indiretta, non cambia troppo; ciò che è immane non conosce gradi di mediazione)». Ma – scrive Lisa, figlia di Carlo, nipote di Natalia e Leone Ginzburg – a fronte di una memoria antifascista forte e dichiarata vi è anche «uno sconvolgimento intuito, ereditato ma non attraverso ricordi raccontati, piuttosto trasmesso in assenza di immagini, di parole precise o di pianti e singhiozzi, che può permeare di sé la mente, anche ossessionarla, così come un dramma solo ’respirato’ può incistarsi nei pensieri e anche nel corpo esercitare un’azione».

PERCORSI DIFFERENTI l’uno dall’altra ma che raccontano un’eredità in cui la scrittura ha un ruolo duplice: privato – perché consente una presa di parola che è anche rivendicazione di identità personale – e pubblico perché chiama a una storia capace di riscattarsi da un silenzio durato spesso molti anni. In entrambi i casi è la messa in comune di un lascito ingombrante: confrontarsi con le vite dei sopravvissuti è una responsabilità alla quale è difficile sottrarsi: «Di questo si tratta – spiega Piero Terracina a Ginzburg – difendere la libertà. Non solo la loro (dei giovani, ndr) anche la libertà degli altri, e dei loro figli, se e quando ne avranno».