La sentenza del Tar dell’Emilia Romagna che vieta l’effettuazione del rito della benedizione pasquale nei locali scolastici è estremamente equilibrata e distingue meglio di quanto abbiano saputo fare politici interessati, dirigenti scolastici, docenti e religiosi, tra conoscenza del fatto religioso e partecipazione al rito, ovvero a un atto devozionale che nelle intenzioni di chi lo compie intende delimitare un luogo e porlo sotto la protezione di un Dio, mediante atti conseguenti (la preghiera e gli atti rituali), finalizzati ad intercedere per ottenere la protezione della divinità. La benedizione è dunque un atto di dedicazione di un luogo a un Dio, è atto di culto.

Considerare la benedizione pasquale una mera tradizione ne sminuisce il significato e non concorre a coglierne la portata e l’importanza religiosa: chi lo fa banalizza e offende questo rito così importante per chi crede, in quanto delimita uno spazio posto sotto la protezione del Dio dei cattolici.

A scuola si può parlare delle zeppole o delle uova dipinte, o della coltivazione e realizzazione dei sepolcri queste sì evocative delle tradizioni. Si tratta di attività ludico-gastronomiche o evocative di antiche festività e eventi dell’avvicinarsi della primavera – assorbite dalla tradizione religiosa cattolica e già frutto di religioni precedenti – non assimilabili a un atto rituale come la benedizione che coinvolge i ministri di culto e i fedeli nella celebrazione di un atto devozionale escludente e rivolto a un unico Dio.

I giudici hanno dimostrato di saper cogliere questa differenza che sfugge invece a dirigenti scolastici di evidente poca cultura religiosa, a politici a caccia di voti dell’elettorato più tradizionale e a prelati interessati a mantenere il controllo sul territorio e a tutti coloro che fanno della religione un “marcatore culturale” atto a affermare la propria appartenenza e identità.

Il confronto e il dialogo inter religioso, come quello con i non credenti – affermano i giudici amministrativi – si svolge sul piano culturale e non sul terreno del rito e della pratica di culto, ridotta da chi vuole imporla e elemento folcloristico, depauperato di ogni significato religioso e devozionale, se non quello formale. Eppure la religiosità, la preghiera e la fede di tutto hanno bisogno fuorché di esibizioni forzate! La propaganda del culto – nel senso dell’art. 19 della Costituzione – si fa, aggiungiamo noi, con la predicazione, con l’apostolato e con le azioni di carità e non con le esibizioni di malsane abitudini, come ad esempio la benedizione degli autoveicoli che notoriamente non hanno un’anima!

Consapevoli di ciò i giudici amministrativi hanno ricordato che il principio di laicità esige che la scuola sia luogo di cultura e di confronto tra le differenti appartenenze religiose, che anzi si faccia carico di affrontare queste tematiche con il metodo che gli è proprio e cioè il contraddittorio e il confronto tra le diverse opzioni. Il rito invece è esecuzione univoca, unilaterale, indiscutibile di un atto devozionale che o si condivide o non si condivide. Perciò i giudici fanno riferimento al principio di laicità.

Certo l’efficacia di questa sentenza è limitata al caso specifico, ma è l’art. 19 della Costituzione che disciplina il diritto di celebrare il culto e di farne propaganda. E questa è norma generale che deve essere applicata e da tutti rispettata anche e soprattutto dai sovrintendenti e dirigenti scolastici. Tanto più che sono le stesse norme concordatarie, le quali disciplinano la presenza della religione nella scuola, che all’art. 9 del Concordato stabiliscono che l’insegnamento della religione deve avvenire come fatto culturale e non rituale. Altrettanto fanno le intese con le diverse confessioni, le quali sanciscono che questo insegnamento non può avere carattere diffuso e quindi avvenire durante le altre attività della scuola. Da tali disposizioni emerge il divieto di svolgimento di atti rituali nella scuola pubblica.

Una sentenza quindi frutto di buon senso, di profonda e rispettosa conoscenza della Costituzione, delle leggi, dei Patti con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni, dell’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero, e dell’articolo 3 che impone il rispetto del principio di uguaglianza tra chi crede e non crede e quindi del principio di laicità.

*Professore di Diritto ecclesiastico, Università di Bologna