«Il piacere degli occhi e la bellezza delle cose – scriveva lo storico Braudel – nascondono i tradimenti della geologia e del clima, e fanno dimenticare che il Mediterraneo non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità».

La frugalità e moderazione contadina che noi oggi chiamiamo semplicemente «dieta mediterranea», prima che mito identitario era la dura condanna di esseri umani premoderni che conoscevano la fame, le carestie e i loro corollari di guerra e malattia.

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Descrizione del “Paese della Cuccagna” dove chi manco lavora più guadagna, litografia colorata. Torino, Gorla, terzo quarto del XIX sec.

Se le storie e i rituali che ancor oggi i Carnevali europei raccontano di grandi abbuffate, di pantagruelici pranzi, di pance piene fino a scoppiare è perché conservano memoria di quando, almeno una volta nell’anno (semel in anno…), si voleva vivere una realtà diversa, azzerando i normali scenari di vuoto gastrico in favore di un mondo compensativo, onirico e rituale che capovolgesse la realtà.

In una simile realtà si fecero strada, tra alienazione e frustrazione, i vissuti onirici di un mondo subalterno alla disperata ricerca di conforto e sollievo in luoghi immaginari, paradisi perduti tra le pieghe e le piaghe di una vita tanto dura quanto incomprensibile.

Fuori dalla storia reale, gli abitanti del Mediterraneo e dell’intera Europa crearono il potente sogno compensativo di un mondo dove scorreva ogni bendidio, dove tutti i desideri alimentari venivano soddisfatti e, sogno nel sogno, dove non si invecchiava mai e non si lavorava.

Un paese come quello – ma qui siamo in una versione edulcorata ad uso della letteratura per l’infanzia – che secoli dopo Lucignolo potrà descrivere a Pinocchio: «Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre».

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Paul Du Pont / Jacob Jordaens “Re della fava”, acquaforte e bulino, XVII

Questo potente mito, questo affascinante luogo posto «tre miglia dietro Natale… a sinistra, vicino al Paradiso» cui si accede dopo aver mangiato sterco tutta la vita, racconta significativamente un canto tedesco del Seicento, è conosciuto come Paese di Cuccagna, o nelle sue varianti locali Scharaffenland, Lubberland, Luilekkerland o Paese del Prete Gianni, come ancor oggi è noto in Ungheria.

Che questo fantastico mondo abbia una sua geografia e una rappresentazione definita, lo si può vedere «dal vivo» nelle sale della mostra Il mito del Paese di Cuccagna. Immagini a stampa dalla Raccolta Bertarelli, nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco di Milano (visitabile fino all’11 ottobre prossimo).

La rassegna, curata da Giovanna Mori e Andrea Perin in collaborazione con Alberto Milano e Claudio Salsi, racconta il Paese di Cuccagna attraverso oltre centocinquanta opere databili dal XVI al XX secolo, periodo d’oro dell’iconografia di questo paradiso subalterno. Le tematiche più rilevanti sul complesso problema del brioso Paese e sulla diffusione delle sue stampe sono trattate nel catalogo (edizioni ETS, Pisa) che accompagna la mostra, curato dagli stessi studiosi citati e che presenta, tra l’altro, un’inedita geografia (di Claudio Salsi) delle cascine milanesi dai nomi bizzarri, evocanti l’abbondanza o la miseria: da «Cuccagna» a «Mancatutto».

Come si comprenderà dalle varie stampe in esposizione e dalle analisi elaborate nel catalogo, la storia del Paese di Cuccagna non riguarda solo l’iconografia «popolare» e la sua diffusione, ma anche quella della mentalità e l’antropologia europea tout court.

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“Gargantua à son grand couvert”, acquaforte colorata. Parigi, Basset, primo decennio del XIX sec.

Se il termine Cuccagna lo ritroviamo per la prima volta nel 1142 e poi in un poema goliardico del 1164 (i Carmina Burana), dove apprendiamo dell’esistenza di un abbas Cucaniensis, la prima descrizione del mitico Paese l’abbiamo alla metà del XIII secolo in un fabliau di origine piccarda. In questo buffo racconto in versi, un giovane racconta di un pellegrinaggio ordinatogli dal papa in una regione «benedetta e consacrata più di ogni altra contrada». Qui «più si dorme più si guadagna», tant’è vero che «chi dorme sino a mezzogiorno, guadagna cinque soldi e mezzo». E i muri delle case son fatti «di spigole, di salmoni e di aringhe, i tetti di prosciutti e i correnti di salsicce».

In questo carosello culinario, incuranti del pericolo, sprezzanti del dolore, si rosolano ben pasciute oche «che girano da sole su se stesse», i fiumi sono fatti di vino e, cosa importantissima, non si lavora mai. Inoltre, vento rigenerante e godibilissimo, «ogni peto vale un tallero».

In questi giorni e in un’Europa che molti considerano divisa tra un Nord e un Sud rispettivamente abitato da lavoratori produttivi e infaticabili e poltroni nullafacenti aspiranti a un favoloso paese di Cuccagna, è un momento quanto mai opportuno e attuale per osservare le opere a stampa della mostra milanese e riflettere sulle loro implicazioni culturali.

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L’aarbre d’amour, xilografia colorata, Epinal, Jean Charles Pellerin Ultimo quarto del XIX secolo

Aleggia nuovamente per l’Europa infatti lo spettro razzista di un determinismo ambientale che vuole – contrariamente all’opinione di Braudel – che sia a causa della loro indole «cuccagnesca» che i paesi del Sud (in primis la Grecia) non riescano a risollevarsi economicamente.

Concezioni, queste, che sembrano riportarci intorno al XIII secolo quando, parallelamente alla nascita del Paese di Cuccagna, è al culmine la riabilitazione del concetto di lavoro (quel lavoro che, ricordiamolo, fu la conseguenza del peccato di Adamo e Eva) il quale, grazie alle nuove necessità dello sviluppo agricolo e urbano, assumerà progressivamente tratti estremamente positivi: è l’epoca in cui si diffonde il proverbio «il lavoro supera la valentìa».

Siamo in quel delicato e lungo momento di transizione dalla società feudale medievale a quella moderna borghese, quando cioè il nuovo rapporto merce/denaro, i nascenti capitali commerciali e l’economia urbana mutano non solo l’assetto e i rapporti di potere degli abitanti delle nascenti città, ma anche il carattere del lavoro umano in tutta Europa.

Se nel sistema agrario feudale, in condizioni servili, la produzione era limitata al soddisfacimento dei propri bisogni alimentari, all’alba del mondo moderno il ricavato del lavoro, a causa della sua trasformazione in denaro, è moltiplicabile al di là di ogni limite.

È così che la pigrizia, l’ozio, diviene il «padre dei vizi», mentre in quel «mondo alla rovescia» che è Cuccagna sarà la vera fonte di guadagno.

Nei fabliaux trecenteschi, sotto le complesse forme contestative della parodia letteraria, è presente anche l’eco di alcuni ambienti religiosi contrari al prestito ad interessi. Come ci ha mirabilmente mostrato Jacques Le Goff, l’usuraio è infatti colui che si arricchisce dormendo perché è il suo denaro che «lavora» per lui, che «più dorme e più guadagna».

Di fronte all’attuale circolazione di «mitologico» denaro sotto forma di prestiti tra banche centrali e Stati, alle forme moderne di usura e di speculazioni finanziarie, quale momento migliore per visitare una mostra sul Paese di Cuccagna? Magari soffermandosi sul tramonto del suo mito, ben raffigurato nella stampa di Giuseppe Maria Mitelli del Gioco di Cuccagna del 1691, dove l’utopia contestativa delle classi subalterne europee viene ridotta a una banale e innocua Expòsizione gastronomica.