Il 3 ottobre dello scorso anno, nel giorno del quinto anniversario del terribile naufragio di Lampedusa del 2013, la «Mare Jonio» ha mollato gli ormeggi nel porto di Augusta e ha intrapreso una navigazione che è ben lungi dall’essere terminata.

Nelle settimane precedenti, decine di attiviste e attivisti avevano lavorato con passione per adattare a compiti di ricerca e soccorso un vecchio rimorchiatore del 1972, che era stato infine acquistato dopo lunghe peripezie attraverso porti e banchine, con il supporto determinante di Banca Etica.

La ricerca di una nave ci aveva condotti ad attraversare mondi con cui non avevamo alcuna familiarità (il mondo dello shipping, in primo luogo), costringendoci ad acquisire precipitosamente conoscenze e competenze di cui eravamo del tutto privi. Non sfuggiva a nessuno di noi, all’inizio, il carattere quasi donchisciottesco dell’impresa in cui avevamo letteralmente deciso di imbarcarci. Ma avevamo dalla nostra parte una determinazione incrollabile.

Fin dal mese di giugno, quando Salvini aveva chiuso i porti italiani alla Aquarius, con i suoi oltre seicento migranti tratti in salvo, in molte e molti avevamo deciso che era necessario mettere in campo – oltre alla necessaria resistenza – un’azione. E avevamo individuato nel mare, in quel «Mediterraneo centrale» teatro quotidiano di attraversamenti, respingimenti e naufragi, lo spazio imprescindibile in cui agire.  Avevamo quindi bisogno di una nave. Il 3 ottobre potevamo finalmente dire: abbiamo una nave!

Fin da principio, questo progetto è stato sostenuto da una pluralità di attori, diversi ma uniti dalla determinazione di realizzarlo. Un centro sociale come Esc di Roma, l’associazione Ya Basta di Bologna, l’ARCI nazionale, Sinistra Italiana, Moltivolti di Palermo: dalla cooperazione tra questi e altri soggetti ha preso forma la piattaforma Mediterranea / Saving Humans, che gestisce le missioni della «Mare Jonio» e coordina un’infinità di iniziative a terra.

Con l’annuncio della partenza della nostra nave il 3 ottobre, abbiamo lanciato un crowdfunding che ha avuto uno straordinario successo consentendoci di operare per un anno. Donazioni individuali si sono sommate a quelle raccolte in una miriade di cene e iniziative pubbliche organizzate all’interno di centri sociali, circoli e parrocchie. D’altro canto, per un’operazione come quella di Mediterranea i soldi non bastano mai: al flusso in entrata corrisponde implacabile il flusso in uscita, e garantire quantomeno il pareggio tra i due flussi è una scommessa che si rinnova ogni giorno. Continuate a sostenerci!

Mediterranea ha rappresentato, nel tempo della chiusura dei porti e della ferocia contro profughi e migranti, un tentativo di risposta all’altezza della sfida che ci siamo trovati di fronte. Insieme ad altre navi della società civile (quelle di Sea Watch, Open Arms, Sea Eye, Lifeline), nel corso delle sue sette missioni la «Mare Jonio» ha intanto svolto una essenziale attività di monitoraggio e di testimonianza. Ha in particolare documentato i veri e propri respingimenti collettivi attuati dalla cosiddetta «Guardia costiera libica», finanziata e assistita fin dal 2017 dal governo italiano, denunciando la sua evidente connivenza con i «trafficanti» e con i gestori dei campi di detenzione in Libia (le cui atroci condizioni sono ormai a tutti note).

Ha poi effettuato (insieme al veliero «Alex») quattro interventi di soccorso, salvando da un sicuro naufragio 237 persone. Ognuno di questi salvataggi è stato seguito da uno standoff e da un duro scontro con il governo – al termine del quale i naufraghi sono comunque sbarcati. Non sono mancati sequestri delle imbarcazioni e multe, e mentre scriviamo – nonostante il cambio di governo – tanto la «Mare Jonio» quanto la «Alex» sono ancora sotto sequestro, in ossequio a quanto previsto dal Decreto sicurezza bis.

In un tempo non lontano, le attività di ricerca e soccorso in mare delle Ong erano coordinate con le Guardie costiere e – per quanto non mancassero attriti e tensioni – si presentavano come interventi «tecnici», politicamente neutrali. Era un carattere distintivo di quella che Didier Fassin ha definito «ragione umanitaria». Le cose sono cambiate drasticamente quando, prima con l’adozione del «Codice Minniti» e poi con la vera e propria guerra alle Ong di Salvini, l’intervento umanitario è stato nei fatti criminalizzato. Non è una circostanza soltanto italiana: basti ricordare gli attacchi alle associazioni che assistono i migranti lungo il confine tra Stati Uniti e Messico per dare conto di una congiuntura più generale. All’interno di questa congiuntura, l’intervento in mare ha necessariamente assunto tratti di inedita politicizzazione.

Mediterranea ha accettato questa sfida, ha incalzato il governo sul suo stesso terreno e ha aperto uno spazio essenziale di opposizione – collegandosi alle iniziative che si sono svolte con continuità in tutto il Paese e contribuendo ad amplificarne la portata. Tanto nelle piazze quanto sul terreno istituzionale e dell’opinione, l’azione di Mediterranea è risuonata in molteplici modi negli scorsi mesi, ed è riuscita a «parlare» ad attori profondamente diversi.

Costruire ponti tra il mare e la terra è stato del resto un obiettivo essenziale di Mediterranea fin dal suo inizio. Non abbiamo mai pensato all’intervento in mare, che pure caratterizza il progetto, come a un intervento separato dall’insieme delle tensioni e dei conflitti che, a terra, definiscono le stesse condizioni di «emergenza» in cui ci si trova a operare in mare.

Altrettanto importanti degli equipaggi di mare di Mediterranea sono stati gli “equipaggi di terra”, che hanno organizzato centinaia di iniziative (dibattiti, momenti conviviali, serate di cultura e spettacolo, presidi, manifestazioni) e hanno partecipato ai momenti più significativi di lotta e opposizione sociale nel corso di quest’anno. Una cosa mi pare particolarmente importante: a terra, Mediterranea non punta semplicemente a raccogliere solidarietà per le operazioni in mare.

L’obiettivo è piuttosto quello di aprire spazi di discussione e confronto sul significato più generale di quelle operazioni per il lavoro quotidiano con profughi e migranti – ponendo la questione della libertà di movimento come questione di carattere generale e assumendo la migrazione come una «lente» per guardare alla società nel suo complesso. In qualche modo, si può dire che cerchiamo di portare in terra l’ostinazione e la determinazione dei profughi e dei migranti che incontriamo in mare – facendo risuonare il grido che abbiamo spesso ascoltato, Liberté, liberté!

Il lavoro a terra sarà se possibile ancora più importante nella nuova fase che si è aperta con la caduta di Salvini e con le prime iniziative assunte dal nuovo governo in un contesto europeo in rapida evoluzione.

Gli scenari che si profilano, che sembrano puntare a una «normalizzazione» della situazione nel Mediterraneo centrale, scontano numerosi elementi di ambiguità e di incertezza, mentre è evidente la volontà di proseguire sulla linea del «disciplinamento» delle Ong e, soprattutto, della cooperazione con la Libia.

L’azione di Mediterranea in mare continuerà a essere decisiva, per puntare ad allargare gli spazi che eventualmente si apriranno per profughi e migranti nel regime europeo di controllo del confine e per continuare a contendere alla cosiddetta «Guardia costiera libica» il monopolio dell’intervento (di un intervento che, come si diceva sopra, si traduce in respingimenti collettivi verso i campi di detenzione).

Altrettanto essenziale sarà la prosecuzione del lavoro a terra, per consolidare e ampliare le reti che hanno preso forma nel corso di quest’anno. Determinati a riprendere quanto prima l’intervento in mare, lo siamo altresì a impegnarci a fondo lungo le «vie di terra». La combinazione tra queste diverse «scale» di azione è un tratto distintivo di Mediterranea, che ne ha derivato forza e originalità. Continuerà a esserlo anche nel prossimo futuro.