Se la politica, come soggetto e, al medesimo tempo, insieme di luoghi della decisione, latita, scemando in un evanescente concentrato di tecnicismi e di pressapochismi sovranisti, subentra allora il gioco delle identità riflesse, quelle tanto esibite quanto concretamente destinate a contare, nei fatti, poco se non nulla. Gli illusionismi populistici, al pari di quelli tecnocratici, non offrono mai soluzioni reali bensì compensazioni risarcitorie. È parte di essi il campo asfissiante dei simbolismi, chiamati – in qualche modo – a surrogare ciò che di fatto è invece assente.

Certo, mai ci si dovrà dimenticare della lezione novecentesca per la quale il rapporto tra le cose (la cosiddetta «struttura») e le loro raffigurazioni (la «sovrastruttura») è elemento integrante dei rapporti di potere e, con essi, delle diseguaglianze strutturali. Le immagini di senso comune, per intenderci, servono a sancire, cristallizzandole rigidamente e quindi in qualche modo legittimandole davanti alla collettività, le disparità nell’accesso alle risorse. In un tale quadro di riflessioni, la battaglia dell’odierna destra illiberale ha un obiettivo fondamentale, che non può essere confuso con la lotta politica contro i suoi tradizionali avversari. Infatti, esso trova nella delegittimazione di tutte le istanze storiche di emancipazione, quanto meno per come sono venute affermandosi concretamente, dalla lotta di Liberazione in poi, il suo fulcro più potente.

QUELLA DESTRA, che in Italia è da sempre ben presente, non solo non ha fatto i conti con il passato ma non intende in alcun modo farli neanche per i tempi a venire. Poiché in esso, con i richiami e gli echi ai suoi aspetti più deteriori, continua invece a riconoscersi, neanche troppo sottilmente. Entriamo quindi nel merito della questione. La destra illiberale, che trova un accredito tra gli elettori italiani, raggiungendo oramai il quaranta per cento dei consensi, sta conducendo da più di trent’anni – quindi ben prima dello stesso tempo di Berlusconi – un kulturkampf contro le architravi antifasciste del sistema costituzionale italiano. L’elemento di aggregazione di soggetti e protagonisti diversi è il richiamo ad un violento anticomunismo di facciata. Le molteplici retoriche contro il «totalitarismo», che dagli anni Ottanta in poi si sono acriticamente ripetute, nel nome del trionfo di un liberalismo inteso essenzialmente non come cultura delle regole bensì in quanto individualismo proprietario, puntano a lasciare disarticolate le funzioni redistributive dello Stato. Nulla di nuovo, da questo punto di vista.

In una tale temperie, tuttavia si inseriscono gli oramai maniacali rimandi alla necessità di «parificare» le storie (e le memorie) del passato, nel nome di un’inesistente par condicio tra fronti diversi. La parificazione, per capirci, è un dispositivo in virtù del quale si azzerano le responsabilità storiche e i profili di distinzione per sancire, al loro posto, la menzognera equiparabilità tra drammi e tragedie del passato. La confusione di cose, fatti, eventi e attori distinti serve essenzialmente a due obiettivi: il primo di essi è l’affermare che, posta la colpevolezza di tutti, nessuno sia responsabile di qualcosa per davvero e fino in fondo; il secondo movente, invece, gioca con il vittimismo, dipingendo se stessi come la parte lesa. Il primo procedimento si chiama autoassoluzione; il secondo è una risorsa sempre più efficace per auto-raffigurarsi nell’arena politica e cercare il consenso.

IL TENTATIVO, l’ultimo in ordine di successione, di sancire la perseguibilità penale di chi intendesse procedere alla «negazione, minimizzazione o apologia dei massacri delle foibe», attraverso l’associazione di queste condotte a quelle contro la memoria della Shoah, si inscrive a pieno titolo dentro un disegno che deforma e trasfigura la storia per trasformarla in uno strumento di ricatto giudiziario. Anche questa non è una novità ma è ora divenuta, a pieno titolo, parte di un disegno revanscista che si adopera nella manipolazione di ciò che fu per condizionare e ipotecare quello che potrebbe essere. Che la storia, intesa come ricostruzione del passato, sia un campo dialettico di confronto lo si è sempre saputo; che ora diventi il terreno della censura a venire, deve indurre a fa riflettere sulla pericolosità di tutti quei dispositivi penali che, nel nome della «verità», rischiano di trasformarsi in strumenti di azzeramento di ogni forma di discussione.

TROPPO SPESSO ci si è cullati nell’illusione che la sanzione giuridica potesse essere un valido corredo nella formazione di un’opinione corretta e non, piuttosto, l’anticamera dell’annichilimento di ogni confronto di merito. Il rischio di un contrappasso, adesso, si sta facendo sempre più evidente.