La giornata del ricordo alla foiba di Basovizza è stata tutta imperniata sulla condanna inappellabile degli «orrori del comunismo» e sul proposito di togliere la voce a chi non si adegui alle narrazioni ufficiali. Ai partigiani di Tito, comunisti, si aggiunge una colpa ulteriore: di essere slavi e, quindi, di aver voluto annichilire la presenza italiana in terre che ritenevano loro.

L’ESTERNAZIONE del presidente Mattarella è stata ascoltata, accolta e amplificata. Nessun dubbio che le foibe rappresentino un tentato genocidio ai danni degli italiani. La shoa e le foibe sono assimilate, «non ci sono morti di serie A e di serie B» ha chiosato Salvini, entrambe sono accumunate da un unico intento criminale: nazismo e comunismo, le due facce del male assoluto. «No ai negazionismi» aveva detto il presidente della Repubblica «le foibe non sono state una risposta al fascismo ma una persecuzione mascherata da rappresaglia». Detto questo, ogni ulteriore parola contro l’antifascismo sembra legittimata e, infatti, Salvini non si è fatto scappare l’occasione.

I partigiani di Tito sono stati massacratori feroci, è necessario che si smetta l’indifferenza e si ritrovi l’unità nel rendere omaggio «ai martiri, migliaia di donne e bambini, massacrati dai comunisti solo perché italiani». Ci sono documenti ufficiali che rendicontano sulle ricognizioni sostanzialmente infruttuose effettuata nella foiba di Basovizza ma se Salvini vuole che ci siano centinaia, addirittura migliaia di corpi, basta dirlo ed ecco che può diventare verità inconfutabile. D’altra parte, per lui, «sono pochi i negazionisti rimasti».

Soltanto il presidente del Consiglio Conte, in contemporanea nell’aula del Senato, ha usato toni più morbidi ricordando la necessità di difendere la convivenza pacifica di queste terre dal rischio di nuovi odi. A Basovizza la cerimonia è stata poco orientata alla pacificazione e al rispetto della memoria. È tutta contro Tito l’invettiva di Dipiazza, il sindaco a trazione leghista di Trieste che, all’unisono con Giorgia Meloni, chiede che l’Italia tolga le onoreficenze attribuite all’ora Presidente jugoslav, e dichiara anche il proprio sconcerto per la proclamazione di Rijeka/Fiume a Capitale Europea della Cultura 2020 dove non ci sarebbe «niente di culturalmente interessante».

I rappresentanti del Pd presenti si sono allontanati sconcertati, quel che è troppo è troppo: «Non possiamo accettare l’operazione di Dipiazza che, con 70 anni di ritardo, declina il ricordo in sfida nazionale ai Paesi successori della Jugoslavia» dirà poco dopo la Segretaria provinciale del Pd Laura Famulari «abbiamo visto un sindaco attestato sulle posizioni della destra anni ’70, nazionalista dura e antislava. Non è così che si onorano le vittime».

Il presidente della Regione, Massimiliano Fedriga, ha ribadito dal palco quanto già annunciato in Consiglio Regionale: non più un euro per chi dovesse ancora negare l’orrore del comunismo, delle foibe, dell’esodo.

Anche per il vescovo di Trieste è il contesto è sembrato consono per inneggiare alla «Patria come radice di ogni uomo, da difendere dalle spinte mondialiste» e, continuando a citare Woytila, ricorda che «la Patria, dopo Dio padre e madre è il quarto comandamento». Contro i «negazionisti», con foga, anche Gasparri che cita ampiamente il presidente Mattarella e inneggia a queste terre italiane: «Il tricolore sventola a Trieste e a Basovizza più che altrove».

A poco più di cinquecento metri il paesino di Bazovica, abitato quasi esclusivamente, ancora oggi, da sloveni che sanno dov’è la foiba ma sanno anche dov’è il monumento che aveva reso famoso il paese tra tutti gli antifascisti: sono stati fucilati qui i primi condannati a morte dal Tribunale Speciale fascista in trasferta a Trieste. Era il 6 settembre 1930 e da subito il luogo dell’eccidio era diventato meta di pellegrinaggio per gli sloveni e per gli antifascisti di ogni colore.
Il 10 febbraio «giorno del ricordo» era stato vissuto fin’ora dagli abitanti del paese come qualcosa di estraneo, come una passerella che la destra più retriva utilizzava per spargere erba infestante che, pensavano, non avrebbe attecchito. Quest’anno, però, qualcosa è sembrato rompersi e il cielo diventare più nero: non bastando la cerimonia della mattina, ieri sera si è svolta una fiaccolata che ha percorso la strada principale del paese. Trieste Pro Patria e Lega Nazionale gli organizzatori ma c’era anche Casa Pound e un bel manipolo di Forza Nuova.

Il paese, apparentemente deserto, è rimasto sgomento: le ultime fiaccole che avevano sfilato sul Carso erano state quelle dei rastrellamenti nazifascisti, con i paesi dati alle fiamme su tutto l’altopiano. C’era anche rabbia: «Pulizia etnica? Ma di cosa parlano? Com’è che sono tornati a casa i soldati dell’esercito italiano in rotta? In migliaia sono stati accolti tra i partigiani in Montenegro e altri, vestiti e sfamati dalla popolazione, sono stati aiutati a sfuggire ai tedeschi. Si combatteva contro i nazifascisti non contro gli italiani!». Una signora anziana, dietro le persiane con un rosario tra le dita, prega perché si smetta di buttare benzina sulle braci. Ma i muri dei paesi del Carso, intanto, si riempiono di scritte con il simbolo di Casa Pound: «Partigiani titini comunisti assassini».

Dalla Slovenia le prime proteste: il Presidente della Repubblica Borut Pahor ricorda «l’importanza del rispetto delle verità storiche che in Italia vengono ancora ignorate», mentre il partito socialdemocratico sloveno condanna fortemente ogni tipo di riabilitazione del fascismo «che ha tolto la vita e segnato per la sofferenza milioni di persone distruggendo le basi della democrazia e i valori della pace e del rispetto».