Il centrodestra sente il vento nelle vele e ora, dopo i referendum di Lombardia e Veneto, aspetta di prendere il largo con il voto regionale siciliano, antipasto dell’agognato approdo al governo con le elezioni politiche nazionali. Inutile dal punto di vista tecnico-amministrativo (l’Emilia Romagna è già in trattativa con il governo, senza aver avuto bisogno di spendere decine di milioni per consultare i suoi concittadini), il rito referendario di domenica è stato invece utilissimo nella costruzione della futura leadership del centrodestra e nell’evidenziare gli sbandamenti a sinistra.

Certo Maroni, Zaia e Salvini devono ringraziare gli entusiasti del Pd che hanno fatto campagna elettorale per loro, sindaci come quello di Bergamo, o come certi parlamentari contenti perché finalmente «è arrivata la spallata e Zaia ora ha un ampio mandato», secondo l’opinione di una piddina trevigiana. Questi strateghi forgiati alla scuola del renzismo, in profonda sintonia con i loro colleghi leghisti, hanno portato acqua al mulino di Salvini.

Nonostante il coro berlusconiano dica che a uscirne vincente è il trio Maroni-Berlusconi-Zaia, come se Salvini non fosse l’azionista di maggioranza dello schieramento, quasi un leghista modificato dal nazionalismo antieuropeo, è vero invece che il partito salviniano ha segnato un punto pur giocando la partita in casa.

Una squadra rafforzata dall’exploit del veneto Zaia, vero vincitore del referendum, il più in sintonia e in continuità con la vecchia Lega come si capisce oltre che dal commento post-referendario («il Veneto non sarà più quello di prima», «padroni a casa nostra»), soprattutto dal rilancio della posta, con la richiesta dello status di regione speciale per il Veneto e della restituzione del residuo fiscale. Materie bollenti, due fronti di conflitto non componibili messi sul piatto della competizione elettorale, con una forza accresciuta dall’aver portato al voto 5,5 milioni di elettori delle regioni italiane economicamente più forti.

La sinistra reagisce al rafforzamento del centrodestra in modo maldestro, o sottovalutando il risultato o, all’inverso, suonando il campanello del Nazareno vale a dire chiedendo a Renzi un incontro per verificare le condizioni di una alleanza, come ha fatto il gruppo di Bersani. Un escamotage tattico visto che le condizioni per sedersi al tavolo sarebbero la modifica della legge elettorale, la cancellazione del Jobs act e della buona scuola. (E proprio mentre si profila una nuova fiducia, al senato, sulla materia elettorale giunta al suo decisivo passaggio parlamentare).

Cercare ancora l’accordo con il Pd di Renzi certo non rafforza lo spirito di chi a sinistra tenta faticosamente di dare agli elettori disamorati una ragione fondativa di un nuovo partito con salde radici laburiste e una cultura politica libertaria e di sinistra.

Oltretutto farsi dire di no dal segretario del Pd più che un’idea di responsabilità restituisce l’impressione di una debolezza. Tanto più che dopo il secco rifiuto alle modifiche della legge elettorale, ieri Renzi ha pure messo il cappello sui referendum sostenendo che nessuno più di lui vuole colpire lo Stato-esattore. Allargando così la via maestra della grande coalizione per un governo che «nei primi mesi della prossima legislatura cominci con un accordo delle forze politiche» per abbattere le tasse. Con buona pace di chi, a sinistra, finge di non aver ancora capito bene il messaggio.