Ci vuole coraggio a lanciare una nuova rivista di questi tempi: «una rivista è per definizione un progetto sociale ottimista, e gli ultimi mesi hanno visto i giovani molto scoraggiati e terribilmente isolati».
Per fortuna Kiara Barrow e Rebecca Panovka, entrambe laureate a Harvard nel 2016, non solo questo coraggio lo hanno avuto, ma lanciando nel mondo il loro The Drift, «La deriva», hanno firmato un editoriale spiritoso e appassionato sul giornalismo letterario «di sinistra» negli Stati Uniti e oltre. (Su Twitter il saggista Richard Yeselson lo ha definito «forse la più brillante, acuta e devastante critica della autoreferenzialità dell’élite mediatica liberal, un documento essenziale sulla decadenza di questa fase americana, che prende di mira Trump ma non esclude i suoi più appariscenti avversari»).
Qualche esempio. A proposito dei «diari della quarantena» che nella prima fase della pandemia hanno invaso le pagine cartacee e digitali dei giornali di tutto il mondo: «Più che una testimonianza collettiva, è l’attestato della tendenza, da parte del mondo letterario, a guardarsi l’ombelico».

Sul modo in cui la stampa americana ha reagito alle manifestazioni per l’uccisione di George Floyd: «Per le strade masse di giovani protestavano contro il percorso obbligato scuola-prigione. Nel frattempo su Twitter i professionisti dei media confrontavano stipendi e anticipi editoriali». Infine, riguardo alla situazione politica generale: «Non siamo stati capaci di scrivere o di trovare una via di uscita per i problemi che hanno portato a Trump, così come ’riflettere sui nostri privilegi’ non elimina il razzismo strutturale e additare con il #MeToo un numero sempre maggiore di uomini non conduce all’uguaglianza di genere… I produttori di cultura sembrano affetti da una illusione collettiva secondo la quale quello di cui abbiamo bisogno è una base di perfetti consumatori liberal dall’animo candido e dalla mente immacolata, invece di radicali sfide politiche e legislative ai meccanismi di potere».
Quanto al loro progetto, Barrow e Panovka spiegano che il nome della testata ha origini lontane: «Nel 1948 un romanziere presto dimenticato (John Clellon Holmes, il cui Go è considerato il primo testo narrativo beat, ndr) osservava nel suo diario che tutti i giovanotti intorno a lui scrivevano romanzi e fondavano rivistine, ognuno con la speranza di essere il primo a dar conto della ’deriva del tempo’».

Più lontano, oltre un secolo fa, è il modello a cui le due giovani coraggiose si sono ispirate: il mensile modernista «The Masses» (1911-1917) che, «nato dal socialismo bohémien e dallo sperimentalismo inventivo fiorito nel Greenwich Village alla vigilia della prima guerra mondiale, si batteva per la rivoluzione così come per l’umorismo, la giocosità, l’autoironia, la letteratura e l’arte di avanguardia». E ancora: «Come è noto, ’The Masses’ si descriveva come ’una rivista rivoluzionaria e non riformista, una rivista con sense of humour e nessun rispetto per i rispettabili’. Noi pensiamo che oggi ci sia un pubblico per questo tipo di rivista: una rivista in cui socialismo e femminismo non coincidono con il moralismo; in cui le battaglie politiche non si combattono in campo culturale; in cui un saggio non giustifica l’autoindulgenza; in cui nei media c’è qualcosa di più che una continua analisi dei media stessi».
Il sommario del primo numero comprende tra l’altro un’intervista alla politologa Wendy Brown, un’analisi di Brad Bolman sui «porci capitalisti» (allevamenti suini e «scienza zombie»), un intervento di Erik Baker sul darwinismo sociale dall’Aids al Covid-19.
Una rivista da seguire, insomma.