Le «riforme» istituzionali targate Renzi (e Berlusconi) mirano a «creare un sistema autoritario» in cui il presidente del Consiglio – ai bei tempi noto come capo del governo – avrà «poteri padronali». Una «svolta autoritaria» si viene compiendo senza resistenze, forte del coinvolgimento di Pd e Forza Italia. Un regime sta nascendo sotto i nostri occhi «mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare». L’obiettivo è una «democrazia plebiscitaria», estranea (antitetica) alla Costituzione (ancora) vigente. Parole – grosse – dell’appello di “Libertà e Giustizia” firmato, tra gli altri, da Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky. Le cose stanno davvero così?

Di questo avviso è Piero Bevilacqua, che (il manifesto, 5 aprile) ha fatto propria e approfondito la denuncia. «Come si fa – chiedeva – a non vedere già oggi la curvatura autoritaria che sta prendendo il nostro Stato?» E in effetti su una cosa non possono esserci dubbi: l’acquiescenza della cosiddetta opinione pubblica, che in un paese che ha sempre avuto una sfera pubblica debole, fragile e rachitica è da sempre un problema.

Delle due l’una. O la denuncia di “Libertà e Giustizia” è fondata, e allora non si dovrebbe parlare d’altro, visto che di mezzo ci sarebbe né più né meno che la nostra invero malandata democrazia costituzionale. Oppure è un abbaglio preso da chi proprio non intende il senso magnifico e progressivo delle tendenze in atto. E allora pure se ne dovrebbe parlare, visto che i firmatari non sono propriamente dei lillipuziani né dei sovversivi, e qualche problema ci sarebbe ove un gruppo – pardon, un «manipolo» – di giuristi e intellettuali di spicco mostrasse di non capire nulla di quanto sta accadendo, e si abbandonasse incauta a giudizi tanto estremi e gravi, oltre che fuor di luogo.

Invece nulla, o quasi. Silenzio. Acqua sul marmo. Il che, in qualche modo, dimostra di per sé la fondatezza dell’allarme. Se figure tanto autorevoli possono dire cose tanto serie nell’indifferenza generale, viene il sospetto che in Italia ormai possa accadere di tutto – magari proprio quello che l’appello denuncia – senza che nessuno reagisca e forse nemmeno se ne accorga.

Ma, a parte queste considerazioni, è sin troppo evidente che l’appello segnala pericoli reali. Peraltro in campo (ha ragione Bevilacqua) già da alcuni decenni.

Il sindaco d’Italia che, forte di due milioni di voti alle primarie (poco più del 4% del corpo elettorale), corre imponendo le sue sedicenti riforme, incarna la propensione decisionistica che ha accompagnato negli anni Novanta l’agonia della prima Repubblica. E dà corpo al leaderismo che ne ha costituito il naturale corollario. Queste sue strabilianti trovate santificano la tendenza a emarginare le assemblee elettive e le parti sociali. E a consegnare tutte le chiavi del comando (legislazione compresa) all’esecutivo e al suo capo. Esattamente l’incubo che i padri costituenti tentarono di allontanare una volta per tutte dal nostro paese.

D’altra parte, perché le cose dovrebbero andare altrimenti? Questo modello piace a (quasi) tutti nel Palazzo. È il modello europeo, dove in sostanza a decidere sono la Commissione (formalmente 28 membri, in realtà tre o quattro, a cominciare dal commissario per gli affari economici e monetari) e la Banca centrale. Ed è il modello della globalizzazione, dove lo scettro è in mano ai detentori di grandi capitali e alle agenzie di rating. Non per caso né per destino, come si pretende ogni qual volta qualcuno osi eccepire. Al contrario: per decisione politica, giacché nulla, in linea di principio, impedisce di reintrodurre le regole che in passato vincolavano il movimento di capitali, incompatibile, se libero, con la sovranità degli Stati e dei corpi sociali.

L’appello dunque lancia un allarme più che motivato, e il silenzio che lo ha di fatto accolto mette in evidenza un problema grave che – lo diciamo da anni – coinvolge la responsabilità primaria dell’informazione in questo paese. Addomesticata, allineata o forse soltanto funzionale all’andazzo, quindi incapace di svolgere la funzione critica che le competerebbe.

C’è però un aspetto che rischierebbe di rimanere fuori dalla visuale, ove ci si limitasse al tema dell’autoritarismo, strisciante o conclamato, di Renzusconi e dei suoi alfieri. Come risponde il paese a questo nuovo attacco ai diritti e alle garanzie? Come reagisce alle minacce che il governo porta alla Costituzione e ai fondamenti della democrazia repubblicana?

Anche qui, silenzio. Indifferenza. Acquiescenza. Si capisce, intendiamoci. Sono, lo si diceva, alcuni decenni (tre, per la precisione) che questa storia va avanti. Per responsabilità di ambo le parti governanti, e a suon di colpi di mano detti riforme istituzionali. Di leggi elettorali oligarchiche, di regolamenti parlamentari-bavaglio. E di insulti alla condizione materiale delle persone: all’occupazione, al reddito, alle condizioni di lavoro, allo Stato sociale.

Per forza la «gente», nauseata e atterrita, si allontana dalla politica (un quarto degli italiani non va nemmeno più a votare). Per forza i politici – parliamoci chiaro: tutti – sono guardati con un misto di rancore e diffidenza. Considerati il braccio armato di una crisi che devasta vite e pensieri. Per forza l’idea che la politica sia una cosa sporca non solo va per la maggiore, ma si aggrava per il fondato timore che sia anche fonte di disastri.

Sta di fatto che l’apatia e la rassegnazione la fanno da padrone. Insieme a un risentimento senza obiettivi, di cui si pascono gli imprenditori dei nuovi populismi. Allora viene il sospetto che il pericolo non venga solo né tanto dai disegni autoritari dei nuovi inquilini del Palazzo, ma anche e soprattutto dalla stanchezza imperante in una cittadinanza che non resiste più e non protesta più. Che ha ormai accettato di trasformarsi in sudditanza perché non crede nella possibilità di farsi in qualche modo valere. Forse non è il possibile dilagare della disobbedienza l’assillo di lor signori, né tanto meno il rischio di una rivolta sociale. L’essenziale è piuttosto assicurarsi l’inerzia di noi tutti. O, come diceva il buon Jannacci, il nostro omeopatico rincoglionimento. Il che, a cent’anni dalla rivoluzione russa e a un quarto di millennio da quella francese, non è quel che si dice un bel risultato.