«Privato» ha molti significati, quasi tutti a che fare col singolo. Sta bene accanto a «personale» come «intimo», anche «familiare» suona. Nel contesto della salute mentale è l’ultimo termine quello che veste meglio, perché la malattia sta nel proprio, confinata dentro fondamenti comuni. Cosa rende privata la salute mentale? L’assenza del pubblico nel quartiere, l’abbandono familiare dei servizi e la vergogna della sofferenza, la privazione del diritto alla cura. L’Istituzione che ti dice quanto vale il male di una persona.

IL TESSUTO URBANO di Napoli si snoda rumorosamente, la macchina frena, riparte e frena ancora bruscamente. Fuori gli scooter serpeggiano tra le vetture incuranti della coda, della musica neomelodica scandisce il tempo, le parole dei passanti soffocano dietro tessuti protettivi. Fedele Maurano chiede se voglio un caffè e si accomoda, il suo è il quarto, forse quinto della giornata. C’è una crisi, una serie di contraddizioni da affrontare – «la relazione contro la vita, la socialità contro la distanza» -, il Covid sta insegnando che la libertà non è un fatto individuale, che «non ti salvi da solo». Allora in queste situazioni ci si aggrappa agli strumenti conosciuti, ad aiutare nei luoghi dove la persona «vive ed è immersa nella sua trama affettiva di relazioni, riferimenti che gli hanno garantito un’identità e un’appartenenza». Dal Dipartimento si vede Napoli dall’alto: tanti puntini impazziti che corrono da una parte all’altra di fretta, accaldati di vita. C’è un sottofondo melanconico nelle parole di Maurano, parla asciutto mentre racconta del ragazzo di 11 anni che il giorno prima si è buttato dal balcone. «È emblematico», dice. Non si riesce a cogliere quali possono essere i danni a un adolescente cui viene meno la scuola, il passaggio dalla famiglia a un altro mondo, «questo è un Paese che sta investendo pochissimo nei servizi per la salute mentale in età evolutiva». La porta del direttore è sempre aperta e chiunque può entrare, ventiquattrore su ventiquattro – «misura che tu non sei potente» -, ed è fondamentale restare aperti nonostante le difficoltà.

Cos’è che manca? «Le risorse. Il welfare è stato smantellato», ma la salute non dipende solo dai sistema sanitari. «Le riforme hanno insegnato che è l’intreccio della clinica con la vita che ha valore, e che molto spesso in una storia hanno più importanza le “variabili extra-cliniche”, quelle che non riesci a immaginare», a evidenziare con i loro effetti concreti e quindi efficaci: il significato di un abbraccio nel momento di dolore, ad esempio. «Quale idea sottintende questa salute mentale?», ragiona Maurano tra sé. «Insegni cos’è la malattia, come si tratta, come fai un’anamnesi», ma nella formazione universitaria non è passata la riforma, cos’è nella pratica la 180. La consapevolezza persa sulla salute mentale è data da un pretesto di comprensione, giustifichiamo più un tumore che la depressione: la volontà del singolo è il principio, sottrarsi alla logica d’essere considerato il matto.

I COLORI AUTUNNALI sporcano il marciapiede, l’aria mite ricorda il coprifuoco: a Milano la pioggia non fa rumore. «Basaglia fa l’avvocato del diavolo, una serie di interviste ai politici: “Ma come vi siete sognati di approvare questa Legge, lo sapete che l’Italia è impreparata. Pensate che il Paese possa accettare questo salto culturale pazzesco?”». Roberto Mezzina quando ricorda ha la voce profonda, quella di chi si aggrappa alla ragione del tempo. «L’applicazione della riforma la puoi tradurre in diritti umani», perché quella era una scelta politica a fronte delle Istituzioni oppressive, con degli ostacoli, ma che andava fatta per far saltare il meccanismo alla base del fenomeno, lo stigma, quindi l’oggettivazione dentro la malattia. Staccarsi da un rigore: bianco o nero, giorno o notte, sano o malato. Il modello medico. «È un rompicapo» affrontare la complessità, ribaltare la regola, ridare titolo alla persona, «abbiamo inseguito gente per strada, andavo dietro a ragazzini di 23 anni per dire: “Aspetta, parliamo, troviamo una soluzione”». Questa era Trieste quando Mezzina era direttore, oggi consigliere dell’Oms.

«Nella malattia mentale devi confrontarti con la questione del potere», perché ti nuda dell’autorità sociale e ti schiaccia dentro una categoria. Supererà il cuore, spiega, la depressione sarà la prima malattia nel 2030, «darà tante assenze dal lavoro quanto più dei disturbi cardiovascolari». Cammina già tra i piedi, gli faccio, mimando due gambe muoversi nell’aria: il problema è stata la trasmissione dei saperi, delle pratiche. «Ora che sono fuori vedo: purtroppo non abbiamo mai creato un approccio formalizzato, una scuola vera. Basaglia era restio a irrigidire i modelli, cristallizzarli, evitare l’istituzionalizzazione». Milano mi distrae, poi Mezzina mi richiama all’attenzione: «Internare qualcuno è uscito dalla coscienza civile, non è una cosa da poco. Non lo sottovaluti».

DELLE MATTINE È CAPITATO mi svegliassi con un corpo diverso, estraneo all’altezza del petto, e dei residui di sogni mischiati a casaccio. Una notte al suo posto ho avuto una voragine e, nel soprassalto, ho sentito il fiato più veloce, il respiro andare a singhiozzo. In entrambi i casi ho vissuto giornate disordinate. Mi dicono che alla fine è lo stesso periodo per tutti, e basta non dargli troppo peso, che le notizie arrivano senza modo, così come la morte ci fa il conto ogni sera. Maria Grazia Giannichedda spiega che il Covid non ha peggiorato la malattia delle persone, ma reso visibile quello che c’era: «È più drammatico». Ma «delle disfunzioni, delle assenze politiche, dell’impoverimento» bisogna chiedere ai servizi, non certo a lei, presidente della Fondazione Basaglia.

POMERIGGIO, A ROMA il sole lo immagino risalire via Nazionale, i marciapiedi trafficati di vuoto; gli autobus potrebbero anche essere in orario. Che la salute mentale sia una questione politica lo si argomenta dal fatto che abbia delle ricadute sulle persone. «Ho appartenuto e appartengo a una lotta che ha segnato un punto, la Legge di riforma, ma niente è una conquista definitiva». La sanità italiana è una pelle a macchia di leopardo, quando ne guardi la trama vedi dei tratti più concentrati, vivi e impegnati, altri sbiaditi e sconnessi, là dove lo stigma e il pregiudizio si legano a un’offerta di servizi carenti. Non ci sono risposte esaurienti, ma per Giannichedda la regionalizzazione è stata fatta in modo sbagliato, non agevolando le strutture ma «la nascita di venti repubblichette sanitarie». Allora riprende voce: le leggi non sono sufficienti, tra segnare il punto e cambiare le cose c’è la politica, la lotta sociale. «Io non vedo un deserto», ci sono tante piantine che hanno bisogno di essere innaffiate. «Bisogna mettersi insieme, e non è che sia mai stato facile».

Capita di parlare con amici che dicono: «Mi sveglio la notte, non dormo», che scrollano le spalle quando chiedo di Giulia e hanno le case che sembrano tinte d’alcool. Alla televisione si alterna la tragedia in Veneto – padre compie una strage in famiglia, poi si toglie la vita -, a quella del Lazio – baby gang si riuniscono, un quattordicenne è grave -, senti i vicini sconvolti, comunità tramortite. Spengo la collega parlante, espiro: e se un giorno mi svegliassi anch’io con le voci?