Sono stati 227 i decessi da Covid-19 registrati nelle ultime 24 ore, insieme a circa 101 mila nuovi positivi. I numeri da guardare con più attenzione, dicono però gli esperti, sono quelli relativi ai ricoveri: ci sono 11 pazienti in più in terapia intensiva (che ora sono più di 1.600) e altri 700 ricoverati positivi negli altri reparti. Continua dunque a salire la pressione sugli ospedali. A livello nazionale, il 17% dei reparti di rianimazione è occupato dai pazienti Covid. In Trentino, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Calabria e Veneto si supera il 20%. Come le ondate passate, anche questa impone ora ai medici di ridurre l’attività ordinaria, per mancanza di infrastrutture e di personale. Se le terapie intensive sono piene, si fermano anche gli interventi chirurgici. I letti di terapia intensiva, infatti, servono per la convalescenza dei pazienti dopo interventi chirurgici di una certa gravità, spiega Francesco Basile, presidente della Società italiana di chirurgia (Sic).

«L’attività chirurgica in tutta Italia è stata ridotta nella media del 50% con punte dell’80% – spiega – riservando ai soli pazienti oncologici e di urgenza gli interventi. Ma spesso non è possibile operare neanche i pazienti con tumore, perché non si ha la disponibilità del posto di terapia intensiva nel postoperatorio».
Sulla carta, il governo ha quasi raddoppiato i posti di terapia intensiva rispetto al periodo pre-pandemico, portandoli da cinquemila a novemila «attivabili». Ma non significa che i nostri ospedali ora siano più pronti a rispondere alle ondate. «Ci avviamo verso la stessa situazione del 2020 – riprende Basile – che ha portato come conseguenza 400.000 interventi chirurgici rinviati, notevole aumento del numero dei pazienti in lista di attesa e, ciò che è più pesante, si è assistito all’aggravamento delle patologie tumorali che spesso sono giunte nei mesi successivi in ospedale ormai inoperabili».

I quattromila posti in più, infatti, sono stati ricavati a spese di altri reparti oppure sono stati allestiti senza un parallelo aumento del personale, cresciuto solo in minima parte durante la pandemia.

La conferma viene da un altro chirurgo, il presidente dell’Associazione chirurghi ospedalieri italiani (Acoi) Marco Scatizzi. «Il finanziamento ad oggi non ha coperto la stabilizzazione degli infermieri e dei medici che sono stati assunti per l’emergenza. Se avessimo dato una programmazione certa a queste risorse umane, forse oggi non saremmo in queste condizioni», racconta il medico. «Se il ministro della Salute, Roberto Speranza, e le Regioni investono oggi in quello che chiediamo, ovvero più infermieri, anestesisti, chirurghi, e nelle strutture, in un anno possiamo recuperare il 70% degli interventi rimandati. Mancherebbe un 30% che si può smaltire nel 2023 se riprendiamo a regime e non ci sono ulteriori problemi».

Eppure, né la saturazione complessiva dei reparti (per pazienti Covid e non) né la quantità di personale dedicata all’assistenza sono indicatori che influenzano i «colori» delle regioni e determinano misure di emergenza. Per esempio, risulta tuttora in zona bianca la Campania. Dove però da oggi sono sospesi tutti i ricoveri tranne quelli «con carattere d’urgenza “non differibili” provenienti dal Pronto Soccorso o per trasferimento da altri ospedali», come recita un’ordinanza dell’Unità di crisi regionale.

Il servizio sanitario deve ancora smaltire i ritardi accumulati nel 2020, quando l’impatto sulla sanità delle ondate pandemiche è stato ancora più pesante. Alla fine del 2021, l’Agenas ha presentato il «Programma nazionale esiti», il resoconto sui livelli assistenziali garantiti nel corso del 2020. Molti indicatori sugli interventi terapeutici più comuni mostrano un forte declino causato dalla pandemia. Le operazioni di bypass all’aorta, ad esempio, nel 2020 sono crollate del 24%. -18% per le protesi all’anca. In calo del 22% pure gli interventi sulle valvole cardiache. Nonostante gli eroismi dei medici, anche i servizi di urgenza hanno sofferto dell’impatto del coronavirus: oltre a diminuire la mobilità e dunque anche i rischi cardio-vascolari, la saturazione degli ospedali ha portato meno persone a rivolgersi ai pronto-soccorso per infarto (-12%). Di conseguenza, la mortalità per la stessa patologia è salita da 7 a 8 decessi ogni 100 casi.