Non sarà la polizia islamica che veglia sulla morale e sui costumi, assicura il governo, non saranno ronde, né agenti ausiliari di polizia, ci mancherebbe altro. Ma nondimeno è difficile immaginare che i sessantamila volontari chiamati tramite un bando a controllare le «sbavature» della fase due rappresenteranno qualcosa di diverso da un apparato di sorveglianza e intimidazione. Nonché l’ennesimo ricorso al lavoro gratuito, mascherato come di consueto dalla «volontarietà» e dal «civismo», traslocato dai «grandi eventi» alle grandi emergenze.

Non si tratterà insomma di cortesi informatori, di innocui contapersone, di boy scout al servizio del tradizionale anziano in procinto di attraversare la strada o di cittadini intenti a rimuovere le macerie di un terremoto, ma di caporali improvvisati chiamati a interpretare a modo loro le confuse ordinanze di governo, regioni, sindaci e minisindaci dilaniate dal conflitto irrisolto tra interessi economici e rischi sanitari.

Non era difficile prevedere che la riapertura pressoché generalizzata avrebbe comportato una meno generalizzata osservanza delle norme di prevenzione peraltro non sempre ragionevoli e comprensibili, nonché segnate da innumerevoli contraddizioni. Se nelle fabbriche e negli uffici del Nord (principali bacini del contagio) il mantenimento dell’ordine resta affidato all’autorità dei padroni, fin dove e fin quando gli converrà, nella vita sociale questo compito è assegnato a un non piccolo esercito (se riusciranno a metterlo insieme tra cassintegrati e sottoposti al regime del reddito di cittadinanza) di guardie in erba.

Prodighi nell’offrirci le immagini di capannelli di giovani nei luoghi della movida da additare alla nostra riprovazione, i media raramente ci hanno mostrato i lavoratori ammassati nei capannoni dell’industria lombarda.

Se vi è una costante nei decreti legge, nelle ordinanze e nelle norme che hanno accompagnato l’evolversi della pandemia, questa è stata la costante demonizzazione delle «attività ludiche», ovverosia tutto ciò che esula dal lavoro, dalla cura sportiva del corpo e spirituale della mente.

Attraverso il setaccio normativo che pretende di separare il necessario dal superfluo a non passare sono soprattutto le forme di vita giovanili e la fruizione dello spazio pubblico, quello indispensabile a chi di poco altro dispone . Non che queste dimensioni di socialità non debbano tener conto di un rischio che è tutt’altro che scomparso, ma è anche vero che un richiamo razionale e non punitivo all’autoregolazione, che non distingua i sorveglianti dai sorvegliati, risulterebbe socialmente più accettabile e forse anche più efficace.

Esiste l’irresponsabilità? Certamente, fa parte del libero arbitrio. Ma, quando i motivi di allarme sono evidenti, abbiamo visto che non si tratta di un fenomeno estremamente diffuso. Non siamo rientrati nella normalità, d’accordo. Ma è possibile evitare che questa «anormalità» vada assumendo tratti polizieschi?