Oggi è difficile individuare un concetto che goda di maggiore fortuna rispetto a quello di democrazia, diventato un ingrediente irrinunciabile per l’autodefinizione di qualsiasi movimento, tanto che nessun attore sulla scena politica può oggi definirsi «antidemocratico», pena la sua immediata cancellazione dal dibattito pubblico: «democrazia» non indica più solo una forma di governo o una procedura, ma l’intero orizzonte assiomatico dei paesi occidentali. Questa fortuna dell’idea di democrazia non è però priva di ambiguità perché confonde in sé molteplici piani di argomentazione e necessita di qualificazioni che configurano modelli di società radicalmente diversi (democrazia liberale, costituzionale, rappresentativa, diretta, deliberativa, competitiva, totalitaria ecc.).
La fortuna dell’idea di democrazia è dunque speculare al suo uso ideologico e strumentale, attraverso cui viene trasformata in un passepartout utile a giustificare qualsiasi opzione politica. Proprio per fare chiarezza sulle ambiguità del principio democratico è utile il volume di Stefano Petrucciani (Democrazia, Einaudi, pp. 252, euro 22) che fornisce strumenti di comprensione concettuale e presenta una prospettiva critica – sia storica che teorica – sull’idea di democrazia. Sul piano storico, il volume ricostruisce il lungo viaggio della democrazia dalla Grecia classica a oggi, passando per le rivoluzioni americana e francese, le lotte per il suffragio universale e l’affermazione dello Stato sociale. Sul piano teorico, Petrucciani analizza numerose questioni connesse all’idea di democrazia (costituzione, rappresentanza, diritti, partiti), per giungere infine a una riflessione sulle patologie delle democrazie contemporanee determinate dalla ristrutturazione dei rapporti di potere nello spazio globale.
Formulata in epoca greca classica, l’idea di democrazia attraversa un lungo periodo di oblìo per trovare nuova fortuna con i teorici del giusnaturalismo moderno, prima di avere la sua compiuta realizzazione nel Novecento, quando cadono molte delle barriere (ceto, reddito, genere) che avevano impedito la partecipazione alla vita politica di un alto numero di cittadini. L’elemento caratterizzante della democrazia nel XX secolo è sembrato dunque consistere nell’eguale partecipazione di ogni membro della società alle decisioni vincolanti grazie al progressivo allargamento dei diritti civili, politici e sociali. Tuttavia, oggi, le dinamiche democratiche non hanno lasciato solo luci, ma anche ombre con le quali è necessario fare i conti. Per esempio, libertà ed eguaglianza non hanno camminato di pari passo, tanto che nelle democrazie contemporanee sono aumentati i livelli di diseguaglianza sociale ed economica, così che sembrano riproporsi vecchie questioni di ceto, in particolare nell’accesso alle opportunità e nella mobilità sociale. Anche a livello istituzionale, il principio della rappresentanza ha finito per entrare in crisi a causa della progressiva trasformazione dei partiti politici in macchine oligarchiche di organizzazione del consenso e di gestione del potere.
L’elenco potrebbe continuare, ma si tratta di vicende note sul piano politico e sociale. Il lavoro di Petrucciani è importante soprattutto per una riflessione filosofica sull’attuale ambiguità della democrazia. Il riconoscimento di tale ambiguità rappresenta, infatti, il primo passo per svelare gli effetti controfattuali dei ricorsi odierni alla volontà popolare, spesso puramente strumentali nel coprire rendite di posizione politica ed economica al riparo del consenso del demos. Si tratta di un fenomeno piuttosto semplice da osservare, perché il plebiscitarismo italiano degli ultimi vent’anni nei confronti del leader – da Berlusconi a Grillo e Renzi – è un vivido esempio di quest’uso ideologico del principio democratico, reso ancora più efficace dallo strisciante conformismo e dalla suadente aggressività degli strumenti di persuasione e di indottrinamento di massa: abbiamo così assistito a un progressivo scivolamento in forme di plutocrazia demagogica che, imponendo il dominio del «mercato», hanno ricreato rigide diseguaglianze sociali di «ceto» attraverso l’uso ideologico del lessico delle libertà, ma di fatto svuotando l’idea stessa di democrazia, ridotta a esistere solo nelle cabine elettorali.
Questa crisi politica della democrazia riposa su una crisi sociale e culturale che, ormai da quasi trent’anni, ha visto in Occidente la frantumazione delle identità collettive e l’affermazione di forme di passività che hanno tolto significato a parole quali partecipazione e autogoverno. È il pericolo già segnalato da Tocqueville: all’essenza della democrazia non è estraneo l’avvento di una società passiva, statica, socialmente frammentata e incapace di effettivo mutamento, governata in modo paternalistico da un potere che parla non alle classi, ma agli individui isolati, chiusi nei loro interessi privati e contrapposti gli uni agli altri.
In questo modo, il conflitto politico smarrisce la possibilità di elaborare un progetto generale di società e si riduce a «contratto», cioè a negoziato diretto tra portatori di interessi dotati di un potere socio-economico radicalmente asimmetrico. In breve: la politica diventa mercato. Ma la politica democratica – se non vuole essere demagogia – è ben altro, è cioè praxis e mediazione, governo della complessità e gestione del conflitto, analisi e interpretazione dei bisogni sociali, costruzione di progetti di lungo respiro e definizione di un’idea complessiva di società attraverso il duro passaggio delle idee all’interno delle dinamiche storiche.
Per frenare la deriva paternalistica della democrazia segnalata già da Tocqueville, ma sempre più evidente nell’attuale società della comunicazione, è allora necessario che una rinnovata pratica democratica miri a rispondere alla dissoluzione del legame sociale determinata dall’affermarsi dell’individualità moderna di tipo liberale: la democrazia è oggi chiamata ad arginare una potente dinamica di livellamento delle differenze, di isolamento e di polverizzazione delle relazioni sociali, soprattutto di spoliticizzazione dello spazio pubblico realizzata attraverso una progressiva ipertrofia dell’«io» e della soggettività liberale. La soluzione alla crisi della democrazia non può però essere trovata con scorciatoie demagogiche, ma va individuata in un’altra direzione, attraverso cui la «democrazia di opinione» (quella dei sondaggi, dei talk show e delle primarie) sia sostituita da una vera democrazia partecipativa e deliberativa che si fondi sulla costruzione di un cittadino autonomo e consapevole, in grado di decidere sulle questioni pubbliche senza essere condizionato dalle mode, dalle pubblicità, dagli istrioni o dai demagoghi. Perché senza politica non c’è né democrazia, né libertà.