In un sorprendete articolo comparso su «La Stampa» dello scorso 20 aprile, Massimiliano Panarari s’interroga sull’incapacità del governo di approfittare dello stato d’eccezione per esercitare i propri poteri decisionali.

Il ragionamento è semplice: «lo stato d’eccezione è in corso»; «sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione» (l’immancabile Carl Schmitt); il presidente del Consiglio è colui che decide nello stato d’eccezione.

Ergo: che cosa aspetta Giuseppe Conte a «sciogliere il nodo di Gordio» della decisione più importante e correggere l’«evidente passo falso» che lo ha portato a ritenere «non negoziabile» il «primato della salute» a discapito delle «giuste ragioni del mondo industriale»?

Difficile sommare tanti travisamenti della Costituzione nel breve spazio di un articolo di giornale.

Primo: non è in corso alcuno stato d’eccezione. E ciò per il semplicissimo motivo che si tratta di un’ipotesi che il nostro ordinamento non contempla.

Quel che è in atto è uno «stato di emergenza sanitaria» proclamato, per sei mesi, dal Consiglio dei ministri con deliberazione del 31 gennaio 2020 adottata in forza del Codice della protezione civile.

Un’ipotesi, dunque, che lungi dall’essere «eccezionale», è pienamente riconducibile al quadro normativo vigente e dalla quale discende il potere degli esecutivi statali e regionali d’adottare ordinanze che, pur potendo derogare alla legislazione, devono comunque operare nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico (altro discorso è che poi, in concreto, tali poteri non siano stati sempre utilizzati in modo costituzionalmente legittimo).

Né si può dire che siamo di fronte a una lacuna costituzionale: i costituenti discussero a fondo la previsione dello stato d’emergenza.

Da una parte, coloro per i quali l’ipotesi andava normata onde evitare il rischio che, se si fosse verificata un’emergenza, qualcuno potesse approfittare del vuoto normativo; dall’altra, coloro per i quali, una volta introdotta un’ipotesi di questo genere, sarebbe stato impossibile evitarne l’abuso.

Due posizioni contrapposte, trasversali agli schieramenti politici, ma mosse dalla medesima preoccupazione di evitare il pericolo dell’uomo solo al comando.

Di qui la scelta, poi assunta consensualmente, di regolare non l’emergenza ma i poteri esercitabili dal governo, sotto controllo parlamentare, nei casi straordinari di necessità e urgenza (art. 77 Cost.) e in seguito alla deliberazione dello stato di guerra (art. 78 Cost.).

Secondo: gli ordinamenti giuridici che, come il nostro, si collocano nell’alveo del costituzionalismo escludono che qualcuno possa insignirsi della sovranità (cioè di un potere decisionale ultimo e assoluto). Storicamente, le costituzioni nascono proprio a questo scopo: impedire la sovranità, separando e limitando il potere.

Si legga l’art. 1, co. 2, Cost.: «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». «Appartiene al popolo»: vale a dire a tutti i cittadini, dunque a nessuno in particolare; e, in ogni caso, è vincolata nei modi d’esercizio («nelle forme») e nel merito delle decisioni («nei limiti»). Una sovranità, dunque, diffusa e condizionata: di fatto, una sovranità negata.

Terzo: la tutela della salute – «fondamentale diritto dell’individuo» e «interesse della collettività» (art. 32 Cost.) – è esattamente un bene costituzionale non negoziabile. Meglio: l’unico bene costituzionale non negoziabile, dal momento che il diritto alla salute, strettamente connesso al diritto alla vita (art. 2 Cost.), è precondizione necessaria affinché qualsiasi altro diritto possa essere effettivamente goduto.

Se un passo falso è stato compiuto sulla tutela della salute è l’averla subordinata, almeno in talune circostanze, alle pretese imprenditoriali, non certo il contrario.

Un’ultima notazione: dopo quarant’anni di culto della governabilità siamo giunti al punto di additare Alessandro Magno – il condottiero che recideva/decideva i nodi politici a colpi di spada – a modello per i nostri governanti.

Un allontanamento dall’ideale democratico contro cui Luigi Bobbio aveva messo in guardia sin dal 1996, proprio all’inizio della stagione della “democrazia decidente”, con un libro istruttivo sin dal titolo: La democrazia non abita a Gordio.