«Democracy dies in darkness». La democrazia muore nelle tenebre. Dopo il voto online che ha salvato i sequestratori della Diciotti dall’autorizzazione a procedere, il motto del Washington Post adesso può essere applicato anche alla decisione dei Cinquestelle di usare Rousseau per indirizzare le decisioni dei propri senatori.

Già usata per le Parlamentarie del Movimento, nessuno sa come veramente funzioni la piattaforma di voto, nessun ricercatore indipendente ha mai potuto verificarne il codice, nessuno sa se i suoi risultati possono essere manipolati oppure no. Balzata alle cronache per malfunzionamenti e blocchi, violazioni della privacy e saccheggio di dati, la piattaforma non sembra rappresentare il futuro del voto elettronico come ipotizzato dal suo teorico Gianroberto Casaleggio.

I Cinquestelle ovviamente possono decidere di comunicare e interagire con i propri iscritti come meglio credono, ma da qui a spacciare il voto su Rousseau come un grande esperimento di democrazia ce ne passa.
L’idea poi, non è nuova. L’utopia di autogovernarsi senza intermediari di professione è vecchia come la Silicon Valley.

Già prima dei direttori di Wired, Kevin Kelly e Louis Rossetto – gli ideologi della rete frictionless che in California avevano estremizzato le tesi della tribù del modem di The Well -, l’idea dell’e-democracy aveva partorito le consultazioni online della prima «rete civica» della storia, creata dell’hacker Lee Felsenstein a Berkeley negli anni ‘70. All’epoca il nome Internet non esisteva, perché fu inventato da Robert Kahn nel 1983. È da allora però che schiere di utopisti telematici, noi compresi, hanno guardato a quegli esperimenti come alla possibile soluzione ai problemi della corruzione e del malgoverno delle élite per finire disillusi come tutti gli altri fino alla rivelazione: il potere, per sua natura nomadico, oggi si annida proprio nei gangli della comunicazione digitale. E la mancanza di trasparenza gli consente di perpetuarsi.

Norberto Bobbio diceva che la democrazia è «governo pubblico in pubblico», rammentando l’Atene di Pericle. Lo storico e politologo voleva dire che la democrazia, per essere tale, deve garantire un esercizio partecipato, trasparente e comprensibile per tutti. Ma Rousseau questo non lo consente.

Al contrario delle votazioni in Parlamento non c’è resoconto stenografico, non c’è pubblicità del singolo voto e delle presenze e bisogna prendere per buono quello che i suoi proprietari ci dicono: «Hanno votato in 50 mila», «Ci hanno provato in 100 mila». Le votazioni in Parlamento invece sono pubbliche, le discussioni sono trasmesse in televisione, i giornalisti parlamentari le sintetizzano per i lettori, e vari organi d’informazione le riportano sul proprio sito web.

È vero che Internet è la più grande agorà pubblica della storia, un luogo dove esprimere tutti noi pareri e opinioni, ma se usata per prendere decisioni che influenzano la natura stessa della democrazia deve consentire un processo di votazione basato su segretezza, verificabilità e non vendibilità del voto stesso.

Invece, adottando un sistema così opaco, i Cinquestelle ci ricordano Giulio Cesare – nato rivoluzionario, finito despota -, che cominciò col registrare e pubblicare le sedute del Senato scrivendole negli Acta Diurna con l’intento di sottrargli quell’aurea di segretezza che ne contribuiva al potere, per arrivare ad esautorarlo. Ma lì dove alligna il male, l’antidoto cresce, ed è la trasparenza. Come diceva Stefano Rodotà, «Per le infezioni della democrazia la luce del sole è spesso il miglior disinfettante».