Vi ricordate le elezioni afghane per il rinnovo del Parlamento? Posticipate di tre anni e mezzo, organizzate comunque in fretta e furia, si sono tenute il 20 ottobre.

Era un sabato, una bella giornata di sole in gran parte dell’Afghanistan. Quel sabato 4 milioni di persone – su 9 milioni di iscritti alle liste elettorali e su una popolazione di 30 milioni e passa – sono andate a votare scegliendo tra i 2.500 candidati che si contendevano i 250 seggi della Wolesi Jirga, la Camera bassa del Parlamento. Solo a Kabul erano in lizza ben 804 candidati per 33 seggi. È stata una giornata costellata da ritardi nelle aperture dei seggi, liste elettorali incomplete, personale impreparato, macchine di riconoscimento biometrico malfunzionanti, interferenze di politici e signorotti locali, soprattutto nelle aree rurali lontane dai radar dei media (che avevano tacitamente concordato di non dare notizia degli attentati fino alle 12, per non scoraggiare la partecipazione). Un vero e proprio caos, che ha spinto la Commissione elettorale indipendente (Iec, indipendente solo di nome) a una mossa a sorpresa: l’apertura dei seggi più problematici anche il giorno successivo.

Com’è andata domenica 21 ottobre? Come il giorno precedente. Eppure la comunità internazionale ha plaudito al «processo democratico» e al «coraggio del popolo afghano», tanto determinato da rischiare la pelle pur di votare. A Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, dove abbiamo seguito il voto, tutti ci siamo stupiti che non fosse accaduto niente di grave. Perlomeno in città. I Talebani avevano scelto di attaccare perlopiù fuori dai centri urbani, con questo argomento: «Le elezioni sono fasulle, tanto più sotto occupazione: le impediremo attaccando le forze di sicurezza che proteggono i seggi, non i cittadini».

Il 6 novembre l’agenzia dell’Onu a Kabul ha tirato le somme: le elezioni sono costate la vita a 56 persone, 379 quelle ferite. Il prezzo della democrazia. Meglio, il prezzo di quella bandierina che la comunità internazionale e il governo afghano hanno voluto piantare a tutti i costi sulla «via della democratizzazione». Da lì a poco (27-28 novembre) si sarebbe tenuto il vertice internazionale di Ginevra, uno di quei vertici in cui Kabul e i donatori stranieri si scambiano pacche sulle spalle, dicendosi «bravo», «no, meglio tu». Presentarsi a mani vuote avrebbe reso troppo evidente il clamoroso fallimento in Afghanistan, un Paese dove sono stati spesi più soldi che per il piano Marshall ma le cui istituzioni sono fragili, corrotte, illegittime.

Oggi, il teatrino viene giù: la Commissione per i reclami elettorali (Iecc, da non confondere con l’altra) due giorni fa ha annunciato che tutti i voti espressi a Kabul vanno invalidati, causa brogli e irregolarità. Apriti cielo: riunione d’emergenza e, colpo di coda della democrazia farsesca sotto attacco, un altro annuncio, dell’altra Commissione (la Iec) che dice: si sono sbagliati. Il conteggio vada avanti. Votati o meno, che i parlamentari seggano al più presto sui loro scranni. Il risultato? Un bel regalo ai Talebani.