Penso che continui ad essere trascurato, nella vicenda referendaria – e nel suo esito -, il peso di una presenza percepibile di una posizione classicamente di sinistra: quella capace di legare indissolubilmente la questione democratica alla questione sociale.

Come affermato nelle costituzioni democratiche, la democrazia che si è voluta affermare dopo la vittoria contro il nazifascismo vive nella lotta alla diseguaglianza.

Secondo una tradizione del movimento operaio si evidenzia la necessità di affermare un’idea di «democrazia sostanziale» per superare la fragilità intrinseca alla democrazia formale. Questa ispirazione si radicalizza come necessità storica nell’attuale fase di affermazione del regno della diseguaglianza e di costruzione di ordinamenti oligarchici. Perciò sarebbe necessario vedere protagonista proprio quel punto di vista critico presente, bene o male, in tutta la storia politica del paese, in particolare dopo la Liberazione, e che oggi rischia di uscire del tutto di scena. Una ispirazione che, per essere riproposta, andrebbe fortemente rielaborata. Solo così restituendo un senso alla contesa e a quella parte della popolazione che altrimenti non la può vivere per la condizione di deprivazione politica, di spoliazione e di sfruttamento sociale a cui è sottoposta.

LA PERCEZIONE della natura politico-sociale delle forze in campo è sempre inseparabile dai contenuti specifici della contesa. Non trascurando che qui è il partito del centrosinistra, con il sostegno di tutto il centro sinistra europeo e nord-americano ad essere il protagonista di questa riforma costituzionale sulla quale investe la sua stessa sorte.

L’avversario politico principale del fronte del No è, dunque, il partito di Renzi. Il problema da che versante esso venga criticato si pone perciò con tutta evidenza. Non è che manchino nel dibattito tra le forze del No, le voci che fanno vivere una critica da sinistra, ma esse non configurano un polo attrattivo né un discorso politico. Il tema è quello del rapporto tra la democrazia ed eguaglianza. La costituzione materiale ha fatto strame delle conquiste sociali che il conflitto e la politica avevano realizzato. Così quel panorama è stato desertificato, tanto che oggi è assai difficile che la Costituzione possa, nella vita reale, essere associata al contratto di lavoro, al diritto allo studio, alla sanità pubblica, all’ambiente. Il rapporto perduto va dunque riconquistato per dare credibilità a un qualsiasi discorso costituzionale.

MA DA CHI E COME? L’attuale schieramento del No non lo può fare, non lo sa fare e, di fatto, non lo fa. Bastano le foto di gruppo che siamo costretti a vedere a dirci quanto questo handicap sia pesante. Esso si riverbera sui contenuti, sulla piattaforma della lotta che, infatti, è scivolata sul terreno scelto dall’avversario: la personalizzazione del conflitto e il suo risucchio sul terreno politicista e istituzionalista. È proprio la questione cruciale della contesa – il rapporto tra ordinamento costituzionale e costituzione materiale – che così esce di scena, e non c’è più chi la possa riportare al suo posto.

Certo lo scontro tra il partito del Sì e quello del No è aspro. Ma non è dalla durezza nell’opposizione al Sì che si possa ricavare un suo carattere di sinistra. Esso può prendere corpo solo dalla rottura del recinto politico-istituzionale che delimita oggi la contesa, per aggiungere la connessione tra sistema politico istituzionale (la democrazia rappresentativa) e sistema economico-sociale (il tema della giustizia sociale). Diventerebbe rilevante affrontare il nodo tra l’attualità politica e la storia del paese.

LA PRIMA QUESTIONE dovrebbe riguardare la plausibilità stessa di una riforma costituzionale in questo nostro tempo. No, non ci sono le condizioni storiche perché questa strada possa essere intrapresa. Introdurre nel dibattito il peso della storia – sociale e politica insieme – diventa decisivo per rivelare il segno dei tempi. Chi sei tu per porre mano alla Costituzione proprio adesso? È proprio in questo «adesso» che si consuma in tutta Europa una crisi di civiltà e il rovesciamento del conflitto di classe. Perciò le regole scritte oggi sono quelle dei pessimi vincitori nell’oggi.

LA SECONDA QUESTIONE dovrebbe riguardare il “da dove” dovrebbe cominciare un discorso di riforma costituzionale. Chi volesse intraprendere oggi un cammino di riforma dovrebbe applicarsi non già a quella Costituzione repubblicana già sovvertita nell’ultimo quarto di secolo, bensì alla costituzione materiale che ha riempito il corso sociale, politico e istituzionale. Ne aveva piena coscienza un protagonista della storia dell’Italia del dopoguerra come Bruno Trentin, che nei già bui anni ’90 scriveva: «Rovescerei i tempi e i termini della ricerca sulle riforme istituzionali lavorando a un progetto davvero di “grande riforma” che cominci da una legislazione sui diritti individuali, da una nuova regolamentazione dei diritti collettivi, dalla definizione delle regole di rappresentanza che devono vincolare le associazioni volontarie (come il sindacato)». Aver scelto il cammino opposto se non denota una propensione fascistizzante, è l’espressione – pericolosa – di un’adesione organica a quella tendenza neoautoritaria e concretamente oligarchica che l’avvento del capitalismo finanziario globale sta realizzando in tutta Europa.

LA TERZA QUESTIONE investe il rapporto tra la democrazia e la tanto perseguita governabilità. Le assolutizzazioni della governabilità e della consorella stabilità costituiscono il retroterra della riforma proposta da Renzi. Ma sono incompatibili con la democrazia e con la partecipazione democratica, il fatto che la governabilità e la stabilità siano diventate parti decisive della cultura istituzionale prevalente in pressoché tutto il campo delle forze politiche di centrosinistra come di centrodestra, non riduce ma anzi aggrava la drammaticità della questione. Tra democrazia e governabilità, invece, bisogna scegliere. Le classi dirigenti europee, tra queste quella italiana, puntano ciecamente sull’assolutizzazione del tema della governabilità, senza vedere che essa sta generando, sistematicamente, il suo contrario, cioè l’instabilità. Le classi subalterne dovrebbero allora agire in essa per costruire dal basso nuova socialità e nuova democrazia, in un processo costituente che muova dal profondo della società e costituisca le soggettività critiche necessarie per uscire dalla crisi.

GUARDANDO a questa possibilità la rivendicazione del valore fondativo della democrazia del conflitto e della partecipazione andrebbero rivendicati anche nella contesa referendaria.