Forse è bene provare ad alzare un po’ lo sguardo allo scenario generale, in violento movimento soprattutto nel quadro europeo, per cercare di trovare un senso al di sopra di una discussione condotta prevalentemente in modo superficiale o anacronistico.

Prendiamo ad esempio le elezioni politiche in Gran Bretagna. Sono state discusse, da quasi tutti, come se si fosse trattato della solita partita tra Tories e Labour – tra destra e sinistra. Oppure, soprattutto nell’area Pd, come se in ballo fosse la gara tra New e Old Labour, un derby – per usare una categoria cara a Renzi – tra Tony Blair (riesumato) e Ed Miliband (rapidamente seppellito), avendo trionfato postumo il primo ed essendo affondato neonato il secondo. Basta dare un’occhiata ai dati e alle belle mappe colorate che gli inglesi sanno fare benissimo, per capire che non è così. Se si considerano i voti in valori assoluti, anziché i seggi condizionati dal sistema elettorale, si vedrà che il Labour di Miliband non si è affatto svuotato drammaticamente, anzi ha preso (con i suoi 9.347.326) circa 700.000 voti in più rispetto a quelli di Gordon Brown cinque anni fa, e – udite udite! – appena 200.000 in meno del mitico Blair che nel 2005 ne aveva raccolti 9.552.436.

Quello che è andato in pezzi, invece – ed è la luna che bisognerebbe guardare, anziché il dito che ognuno si caccia nell’occhio – è il Regno Unito. L’United Kingdom, che non è più per nulla United, e sempre meno Kingdom. La macchia uniformemente gialla della Scozia, con i 56 seggi su 58 allo Scottish National Party di Nicola Sturgeon (alla sinistra di Miliband, per la cronaca); quella prevalentemente verde e grigia dell’Irlanda; la quasi assenza di blu (Cameron) e di rosso (Miliband) in Galles, ci dicono che il vecchio gioco del bipartitismo si pratica ormai solo in una delle quattro “terre” del Regno, nella vecchia Inghilterra. Anzi, a ben vedere neppure più qui, dove non può non colpire l’estensione omogenea del colore blu (mentre le aree rosse sono quasi esclusivamente concentrate nella “grande Londra” e nella fascia sempre più ristretta che va dallo Yorkshire al Lancashire). E anche questo monocromatismo è il segno che un meccanismo si è rotto: che la tradizionale democrazia dell’alternanza non funziona più nella sua stessa patria, ora che l’antica frattura di classe capitale-lavoro, ancorata alla territorialità dei collegi uninominali, lascia il posto, nell’inedita mobilità del lavoro, a fattori come la paura e il bisogno d’identità in un’Inghilterra irriconoscibile a se stessa nella sua tardiva fragilità e nel suo inedito isolazionismo.

Pochi se ne sono accorti. Ma è quello il vero messaggio preoccupante, perché se la democrazia s’inceppa nel luogo stesso in cui è nata, significa che siamo veramente al di là di una linea d’ombra. Tanto più che quel sotterraneo cedimento strutturale dell’impianto democratico si sta manifestando in forme sempre più clamorose anche nel centro stesso dell’Europa continentale. Può sembrare un dettaglio, ma mi ha colpito un commento recente in Tv, a proposito del referendum ventilato dal governo greco sugli impegni da assumere con l’Europa, in cui si diceva en passant che si potrebbe anche tenere perché – testuale – «il ministro Schauble sembrerebbe favorevole a permetterlo». Il ministro Schauble! Cioè il ministro delle finanze della repubblica federale tedesca – un responsabile economico, di un Paese altro, sia pur potente -, chiamato ad autorizzare o meno l’espressione più elementare della sovranità popolare in un paese membro.

D’altra parte l’aspetto più evidente di tutta la lunga trattativa seguita alla svolta democratica in Grecia, è stato il costante tentativo dell’oligarchia europea di costringere in modo bipartisan – Ppe e Pse, Merkel o Hollande, senza significative differenze – il nuovo governo di Alexis Tsipras a tradire il mandato elettorale e ad assumere provvedimenti socialmente dolorosi e per certi aspetti feroci nei confronti della parte più sofferente dei propri cittadini. Come se il “privilegio” di appartenere all’Unione presupponesse la disponibilità dei governi a “far male” ai propri popoli, secondo un modello di politica neo-feudale, sacrificale, sostanzialmente premoderno (e dal punto di vista filosofico-politico pre-contrattualistico: non è stato Mario Draghi a proclamare che «il contratto sociale è morto»?), in cui all’antica “unzione” divina è sostituita l’ipermoderna “funzione” economica (anzi, finanziaria). E al corpo del sovrano il più impersonale «pilota automatico», termine forse più scientifico ma che, come quello, trasferisce i criteri delle scelte pubbliche al di fuori e al di sopra della società e del controllo dei cittadini che la compongono, secondo un modello che la folle architettura dell’Unione europea – strutturalmente orientata a neutralizzare il livello esecutivo rispetto al processo politico-rappresentativo – formalizza e impone, a cascata, sui paesi membri.

La chiamano “democrazia esecutiva” non essendo più sostenibile il termine “rappresentativa”, ma si tratta ormai di una post-democrazia. Cioè di un’oligarchia sempre meno elettiva, nella quale per quello che resta delle sinistre novecentesche, a cominciare dalle socialdemocrazie classiche, c’è sempre meno spazio (e infatti sono o in profonda crisi come in Francia e Inghilterra, o in via di assimilazione al grande centro come in Germania), venendo a mancare i requisiti minimi per la rappresentanza di interessi (in primo luogo quelli del mondo del lavoro) che il paradigma prevalente – Graecia docet – cancella dal proprio orizzonte. Così come cancella la memoria delle sue stesse catastrofi preparandosi, per via amministrativa, a una nuova, folle avventura di guerra nel Mediterraneo.

Di questa emergenza democratica che scuote alle radici il corpo politico dell’occidente – di questa “rivoluzione conservatrice”, come è stata giustamente chiamata -, l’esperienza italiana del governo Renzi è un’espressione caricaturale, segnata da un di più di virulenza (o di goliardia) per l’innesto populistico che il suo autore v’immette, ma non esterna. O men che meno estranea. S’inserisce anzi in modo organico in quella stessa dimensione sistemica che ha fatto dire a uno come Noam Chomsky che «le democrazie europee sono al collasso». Ed è per questo particolarmente infida e minacciosa (tutto sommato più minacciosa della sgangherata sfida berlusconiana, perché più interna a un potere transnazionale), da combattere nello spazio nazionale e insieme nella sua radice continentale. Non per niente abbiamo chiamato la nostra lista L’Altra Europa con Tsipras, a dare il segno di una battaglia lunga e comune.

Sinceramente, avrei preferito che Barbara Spinelli ci avesse messo a disposizione la sua competenza e intelligenza di colta europeista per aiutarci ad approfondire questi aspetti del nostro difficile essere altro da tutto ciò, piuttosto che «prendere le distanze» – come ha scritto – dall’Altra Europa con motivazioni di cui mi è difficile cogliere la focalità politica (e l’eventuale incomponibilità delle rispettive posizioni). A meno che nel suo rimprovero di un eccesso di relazionalità (o di diplomazia, o di subalternità) nei confronti delle formazioni politiche che furono con noi nelle europee e delle figure che stanno, in modo sempre più netto, rompendo con il Pd, non ci sia una più radicale rivendicazione di autonomia e di ostilità nei confronti della “società politica” in quanto tale, identificata con ciò che sta “in alto” e contrapposta a quanto sta “in basso” secondo uno schema verticale che sostituirebbe il vecchio asse orizzontale destra-sinistra e che ha orientato le retoriche del Movimento 5 Stelle.

In questo caso il dissenso sarebbe davvero netto. In primo luogo perché la constatazione della crisi strutturale della forma-partito – su cui io stesso ho speso molte parole – non significa necessariamente, anzi non significa affatto una dichiarazione di ostilità e inimicizia nei confronti delle persone e delle culture che in quegli organismi hanno militato o continuano a militare (ma, al contrario, una disponibilità alla ricerca comune di forme radicalmente innovative per andar oltre). E in secondo luogo perché resto convinto che per combattere il Partito della Nazione di Renzi – che considero la priorità assoluta del momento – non serva, oggi, la cosiddetta antipolitica. Cioè la vis polemica che permise a suo tempo a Grillo di colpire e affondare la corazzata bersaniana. Per la semplice ragione che il renzismo ha già incorporato quell’antipolitica. Ne ha fatto una parte strutturale della propria retorica e della propria legittimazione. E che per colpirlo efficacemente oggi serva, al contrario, un di più di politica. Di progettualità politica. Di innovazione politica. Di relazionalità politica. E di forza politica: forza delle idee (perché bisognerà averne di grandi, e radicali, per uscirne in avanti), ma anche forza dei numeri. Capacità di mettere in campo lo schieramento più ampio e articolato possibile, in grado di raggiungere quella massa critica che è condizione di credibilità di un progetto che si proponga di rovesciare non solo le scelte di un governo, ma un paradigma, e di praticare lo spazio continentale della sfida europea.

Per questo mi auguro che subito dopo il voto regionale, nel quale almeno gli embrioni di quella massa critica potranno aver modo di manifestarsi, si avvii un processo costituente ampio. Molto più ampio del fronte che sostenne nel 2014 il nostro progetto pilota.