Nel denunciare la deludente prestazione della sinistra europea di fronte alla crisi e all’austerità, la Spd è spesso presa ad esempio in quanto «la più classica socialdemocrazia». Quindi, il partito tedesco passa per la riprova di un destino inevitabile di tutte le socialdemocrazie come fenomeno storico. In realtà la Spd non è necessariamente rappresentativa della storia e del pensiero socialdemocratico europeo. Le incapacità nel proporre ed attuare politiche di domanda che bilancino il grande surplus di export dipendono non solo dalle dottrine economiche dominanti e dalla forza esportatrice tedesca.

In realtà, differenza fra altre socialdemocrazie e Spd è proprio che essa non è quasi mai potuto o saputo realizzare l’importanza strategica, per la propria forza, del salario e della sua piena espansione. Ciò perché ai tempi di Weimar le politiche della domanda non erano ancora egemoni, e poi venne Hitler, mentre gli scandinavi arrivarono all’espansione interna autonomamente, conoscendo ben poco Keynes. In seguito, la Spd fu al governo solo pochi anni utili a praticare la domanda come elemento fondante della propria forza (e identità): più o meno dal 1970 al 1973, anno in cui l’espansione dei salari cominciò, in un contesto già ideologicamente ostile come quello tedesco, ad essere difficile per via della «stagflazione» di quegli anni. Invece, gli scandinavi poterono per decenni usare i due elementi interconnessi: da un lato la forza organizzata del movimento operaio e la critica al sistema, che imponevano di competere con più innovazione che sfruttamento, dall’altro un’espansione che distribuiva verso il basso i frutti di tutto questo.

Questa redistribuzione rafforzava consenso e piena occupazione, così che poi si poteva con energia tornare a costringere gli imprenditori a politiche, relazioni industriali e investimenti «virtuose». La Spd ha praticato molto la prima parte, per esempio conquistando e poi allargando la Mitbestimmung ancora nel 1976, ma ottenendo meno egemonia del possibile perché praticava in modo incompleto l’altro elemento fondante della socialdemocrazia europea. Ancora di più questo è avvenuto in epoca Euro, coi suoi parametri costrittivi (che per esempio prima di adattarvisi anche troppo bene gli scandinavi avevano tentato di ammorbidire), da cui le riforme di precarizzanti di Schröder: i dati dimostrano che da lì origina il ridimensionamento Spd verso il 25%. Sull’attualità questo si ripercuote molto: la giustissima conquista del salario minimo stenta a produrre effetti di consenso per la Spd. Si pensa sia dovuto all’idea di stigma che vi si associa, che impedisce di renderlo un discorso politico espansivo. Ora, il salario minimo è inteso in Germania, giustamente, come base minima di ogni contratto sindacale, armonizzando legge sui minimi e negoziato.

Ma evidentemente, vista la storia, occorre tempo e fiducia affinché i potenziali (e spesso ex) elettori socialdemocratici credano che ciò porti ad una vera e durevole espansione delle paghe, con tutto ciò che segue per la Spd (consenso), la Germania (crescita interna) e la Ue (evitare la catastrofe). Ma il tempo manca, mentre la possibile evoluzione della Spd e del quadro politico tedesco suggeriscono che solo dinanzi allo spettro di una definitiva decadenza verso lo status di «partito minore» (e spesso ignorato) di coalizione della Cdu i socialdemocratici tedeschi potrebbero rivolgersi alla Linke, accogliendo le prediche degli economisti sindacali Dgb, in favore di una crescita nell’eguaglianza dei redditi da lavoro, in Germania ed in Europa. I tempi dell’evoluzione politica sono insomma quelli complessi dei conflitti profondi, non purtroppo quelli della urgenza europea.