L’attrazione popolare per Frida Kahlo ha del sortilegio. Nonostante la calda e terrosa mediaticità delle sue tele riporti in primis a una condizione di infermità e dolore, al tempo stesso sottende a una dimensione di riscatto morale e rimanda a un élan vital congenito. Le sue opere trascinano in un mondo così roboante di millenarismo azteco tanto da tingere, con una aura fantasmatica, l’identità stessa della artista messicana. Identità imponente, carismatica, palpitante, talmente ingombrante da schiacciare la sua stessa arte, sì da far divenire Frida eroina cinematografica, teatrale e letteraria, quasi che il mistero della sua fama sia dovuto alla sua sventurata vita.

Eppure questa indomita «ragazza del secolo scorso», attraverso lo scisma del corpo, non fa che evocare la conflittualità della storia messicana del primo Novecento e, paradossalmente, ci avvita nelle spire di quei grandi visionari, Marx e Freud, che si addensano/condensano, tra conflitto interiore e conflitto esteriore, nella sua opera nonché nella sua vita activa. Poeticamente Carlos Fuentes la ricorda così: «Frida Kahlo era una dea azteca. Forse Coatlicue, la dea madre dalle vesti di serpenti, che nascondeva il corpo tormentato, la gamba inerte, il piede offeso, i busti ortopedici sotto gli spettacolari ornamenti delle contadine messicane, che per secoli conservavano gelosamente i gioielli protetti dalla povertà, per esibirli solo alle grandi fiestas delle comunità agrarie. I merletti, i nastri, le gonne, le acconciature a forma di luna le aprivano il viso come le ali di una farfalla notturna: Frida Kahlo dimostrava che la sofferenza non riusciva a fiaccare, né la malattia a eclissare, la sua infinita versatilità».

Magdalena Carmen Frida y Calderón nacque il 6 luglio del 1907 da mamma messicana e da padre ebreo ungherese, a Coyoacán, allora sobborgo di Città del Messico. In una biografia inseminata dalla malattia (la polio ad appena sette anni e il fatale incidente sull’autobus nel 1925, in cui si fratturò l’osso pelvico e la spina dorsale, che compromise la sua intera esistenza), l’alternativa fibrillante che ne segnò il carattere e l’attitudine fu la passione politica.

La retrospettiva che è approdata alle Scuderie del Quirinale con oltre 160 opere tra dipinti e disegni, curata di Helga Prignitz Poda, indubitabilmente ripercorre questa costante attraverso l’intera carriera artistica di Frida, riunendo i capolavori dei principali nuclei collezionistici, raccolte pubbliche e private, provenienti da Messico, Europa e Stati Uniti. In mostra, vengono presentati oltre quaranta ritratti e autoritratti e una selezione di disegni, tra cui il famoso «corsetto in gesso» che teneva Frida prigioniera subito dopo l’incidente e che lei dipinse ancor prima di passare ai ritratti.

Nata con quella rivoluzione messicana in cui la sollevazione borghese e contadina combatté l’oligarchia latifondista e il regime dittatoriale di Porfirio Diaz dal 1910 al 1917, Frida riflette l’evento centrale del Messico del ventesimo secolo schierandosi, operando e attivandosi personalmente contro la teocrazia azteca, che viveva un processo d’integrazione dipendente nel quadro mondiale dell’imperialismo.

Le ferite e il sangue che tracciano le sue tele devastanti proiettano, attraverso l’iconografia del suo corpo infranto, un dolore nazionale, instillato da una intera classe sociale che si sollevò contro la scure dei potenti. Così come il popolo si divise tra povertà e rivoluzione, memoria e speranza, Frida si scisse tra idealità e realtà. «La rivoluzione – diceva Kahlo – ha lasciato Città del Messico vuota, con un milione di messicani morti in guerra . Era una città bella, rosea città di magnifiche chiese coloniali, palazzi e dimore private di stile coloniale, dolci parchi incoerenti, larghi viali e oscure vie». Ed è la città che diviene metafora e scenario del suo corpo martoriato.

Nel 1926 dipinge il suo primo autoritratto Autorretrato con vestido de terciopelo e l’anno successivo aderisce alla Lega giovanile comunista. Intanto, benché giovanissima, è già perdutamente innamorata di Diego Rivera, passione distrofica e perenne che l’accompagnerà per il resto dei suoi giorni in un continuum emozionale che la renderà più vulnerabile e più adorante.

Rivera è un muralista comunista ed è una figura rabdomantica che ingloba nell’animo ardente della Kahlo passione amorosa e politica. Si sposano due volte nel corso degli anni, tra abbandoni e ritorni, a causa dell’infedeltà congenita di Rivera Frida confessò sempre di aver subìto due incidenti nella sua vita, quello nel tram e Diego Rivera.

I due artisti, nelle loro differenti proposizioni formali, filtrano attraverso i propri umori la storia sociale e culturale dell’epoca. Nel 1936 Frida e Diego raccolgono fondi per i messicani in lotta contro le forze di Franco nella guerra civile spagnola, nel 37 ricevono e ospitano Leon Trotsky giunto in asilo politico in Messico a cui Frida offre Autorretrato dedicado a Leon Trotsky (Entre las cortinas)). Nell’anno successivo, André Breton conosce Frida (in Messico) definendola irrevocabilmente «una bomba coi nastrini».

L’arte apolide di Frida deflagra infatti il concetto di limite: una sorta di flusso di coscienza che assembla sacro e profano, reale e immaginifico, pubblico e privato, l’orrendo e il sublime, slitta tra surrealismo e realismo magico, tra onirico e scientifico. Sovverte le categorie e sfida la convenzionalità della visione. Organizza un paradigma desueto di «bellezza», filigranata dal perturbante e dall’inquietante, solleticata da simbologie millenarie, sottolineata da una autoironia nera e fomentata dall’interesse per l’inconscio e dal ricorso all’assurdo. Ma non solo: la sua attenzione ai dettagli della propria condizione deriva da studi giovanili per la fisiologia e biologia. Le sue metafore biologiche e botaniche e gli insistenti ricorsi a vene, radici, tendini, nervi divengono tutti indicatori del dolore e del nutrimento vitale. L’autenticità pulsionale che trasuda dalle sue tele è palpabile in una inafferrabilità artistica tipica della mezla: il surrealismo europeo e le origini precolombiane.

Le sue tele più famose: La dos Fridas del 1939, Autorretrato con pelo corto del 1940, Autorretrato con collar de espinas del 1940, Yo y mis pericos del 1941, Autorretrato con trenza, 1941, Autorretrato como tehuana (Diego en mis pensamientos) 1943, La columna rota, 1944, il bellissimo e onirico El venado herico del 1946 descrivono ostentatamente e irriverentemente i suoi stati psichici e una sempre più radicale trascrizione del Sé, rappresentato attraverso quel corpo martoriato, recluso nei voluttuosi corsetti o secretato sotto i colorati vestiti tradizionali. Una sorta di seconda pelle che, come lei diceva, era un modo di vestirsi per il paradiso. Un travestitismo (come lo definisce Carlos Fuentes) che emerge dall’abitudine a indossare abiti indigeni, usare acconciature tlaconal, adornandosi di giadeiti, oro, perline e conchiglie, che inducono a immaginare la sofferenza e a scoprirne i segreti. «Ricorda una delle dee azteche della Nascita e della Terra, ma ancor più la divinità flagellante Xipe Totec», afferma ancora Fuentes. Fino al famoso Autorretrato del 1948, in cui Frida appare vestita col tradizionale tocado di Tehuana, talmente coperta dal riccio che le incornicia il viso da apparire simile a una antica maschera di Teotihuacán con cui venivano coperti i volti dei morti.

Viva la vida, Sandias del 1954 è l’ultimo e flebile suo lavoro, realizzato nella fase della sua vita in cui il Demerol e la morfina l’accompagnano fino a quell’estremo 11 luglio del 1954, quando si spense per embolia polmonare. Non prima di aver partecipato (dieci giorni prima) alla manifestazione di protesta sull’intervento della Cia in Guatemala.