Gli anni immediatamente successivi al 1989, alla caduta del muro di Berlino, alla scomparsa della Repubblica Democratica Tedesca e all’implosione dell’impero sovietico furono anni di straordinaria povertà per la letteratura tedesca. Quell’epoca, che già da un po’ si definiva postmoderna e si illudeva di avere definitivamente lasciato alle spalle i conflitti e le tragedie della modernità, che celebrava se stessa in libri come La fine della storia di Francis Fukuyama e sognava il raggiungimento di una sorta di Nirvana occidentale vedendo nella fine della divisione del mondo in blocchi il segnale dell’avvenuto compimento del sogno liberal-democratico, è oggi un ricordo sbiadito per alcuni e qualcosa di inimmaginabile per chi non l’abbia vissuta.

A quel tempo parve a molti che la Germania, investita più di qualsiasi altro angolo del mondo dalle immani novità del momento, non riuscisse a trovare la voce per rappresentare una condizione giunta in modo assolutamente inatteso e sorprendente. Il postmodernismo letterario, che allora dominava, assecondava le illusioni dei filosofi della storia e la lentezza di riflessi degli scrittori proclamando la fine del nuovo e la legittimità di ogni ripetizione e riproposizione del passato, sia pure sotto la veste dell’ironia. Sebbene meglio di ogni altro paese avesse saputo dare voce alla lunga crisi della modernità, la Germania non aveva più, davanti a sé, lo scenario storico con cui i suoi scrittori e i suoi filosofi si erano per tanto tempo confrontati.

Biografia di un buonannulla
Nel 1993, tuttavia, apparve un romanzo che improvvisamente, e in modo del tutto inatteso, riuscì a guadagnare consensi. Si intitolava Io e raccontava con straordinaria inventiva linguistica e poetica la storia di un aspirante scrittore reclutato dalla Stasi per spiare un altro scrittore fornito di un largo seguito che finiva per pedinare, non autorizzato, una misteriosa donna. L’autore del romanzo era Wolfgang Hilbig, poeta noto fino a quel momento soltanto a un ristretto gruppo di cultori, che nel 1989 gli avevano assegnato il premio Bachmann per la sua lirica, il quale divenne – da lì in poi, e per i non molti anni in cui seguitò a scrivere – la voce più autorevole del nuovo romanzo tedesco.

Di Hilbig scrittore autodidatta, solitario, vessato dalle autorità della Ddr che per quasi vent’anni gli impedirono di pubblicare una sola riga e a lungo misconosciuto, apparve in Italia – ed ebbe breve vita editoriale – una raccolta di racconti – La presenza dei gatti (Il Saggiatore 1996); ora Keller pubblica due lunghe prose, Le femmine e Vecchio scorticatoio (traduzioni di Riccardo Cravero e Roberta Gado, pp. 224, € 16,50) che testimoniano altrettanti vertici della sua produzione narrativa. La scelta di accostare i due racconti, che ricalca quella compiuta dagli editori del terzo volume delle opere apparso nel 2010 per le edizioni Fischer, non potrebbe essere migliore.

Scritto nel 1987, Le femmine evidenzia già le matrici della poetica di Hilbig e mostra, perfettamente formato, il linguaggio visionario che caratterizza tutta la sua narrativa, ricreando, nel suo scorrere monologico in cui squarci realistici, ricordi, visioni e sogni si accavallano in un continuum di scintillante compattezza e fluidità, l’atmosfera di due dei massimi capolavori del Novecento letterario, il Malte di Rilke e l’Ulisse di Joyce (Vecchio scorticatoio è aperto, del resto, da una micro citazione di Finnegans Wake). Lo spirito delle riscritture postmoderniste non gli è dunque affatto estraneo, ma a distinguerlo dai suoi contemporanei stanno i temi e le lacerazioni della scrittura.

Le femmine
si regge sulla biografia di un certo C., che nell’agonizzante Repubblica Democratica sogna di diventare scrittore ed è per questo considerato un buonannulla. Avviato al lavoro di addetto al trasporto dei rifiuti, finisce in una fabbrica di Berlino Est dopo aver tentato inutili atti di protesta radicale (come quello di cospargersi di benzina, salvo poi accorgersi di non avere niente con cui darsi alle fiamme) scoprendo a un certo punto di essere diventato incapace di vedere le donne: quelle donne, come l’impiegata che lo recluta per la nettezza urbana o la madre, responsabili di giudicarlo inadatto a qualsiasi lavoro vero e incapace di scrivere. La vicenda (che non manca di episodi esilaranti) è percorsa da una rappresentazione addirittura monumentale dello squallore e del metaforico schifo in cui si riflette il destino di una realtà prossima alla fine.

Se Le femmine è un grande racconto, Vecchio scorticatoio è uno dei rari racconti perfetti di tutta la storia della letteratura, e di certo l’unico apparso in Germania nell’ultimo scorcio del Novecento. Insieme racconto di formazione e fantasia apocalittica, narra di un bambino cresciuto nei pressi di una fabbrica di sapone, chiamata Germania II, in cui le carcasse degli animali vengono trasformate in profumati blocchetti che nascondono la loro ripugnante origine. Superata l’infanzia, e tacciato alla fin fine – anche lui – di inadeguatezza a qualsiasi lavoro, decide di provare a farsi assumere dalla fabbrica, poco prima che questa sprofondi, in uno schianto che assume nella fantasia del protagonista le dimensioni di un collasso cosmico, inghiottita dalla sottostante miniera di carbone. Il racconto è del 1990; ma la fine della Ddr metaforicamente rappresentata dal tracollo della fabbrica di sapone, la scomparsa del mondo sognato con ripugnanza e desiderio dal bambino, è solo il pretesto per scagliare contro i teorici della fine felice della storia e del trionfo dell’ordine liberale e democratico la provocazione di una filosofia della storia apocalittica, la visione del collasso in cui precipitano, prima o poi, le fantasie di felicità dell’ingenuo genere umano.

Esempi di ardito lirismo
La qualità stratosferica del linguaggio lirico di Hilbig, la cui potenza evocativa, la cui bellezza e audacia anche laddove descrive i dettagli ripugnanti della fabbrica hanno pochissimi uguali in tutta la letteratura tedesca, è resa in entrambi i racconti in modo magistrale: la traduzione di Le femmine, di Riccardo Cravero, è perfetta, risponde idealmente alla prosa di Hilbig e la restituisce in modo impeccabile; ma quella di Vecchio scorticatoio di Roberta Gado è un monumento della traduzione: non della traduzione dal tedesco, ma della traduzione in assoluto.

L’audacia nel rendere il lirismo di Hilbig, la capacità di restituire ogni arditezza, ogni neologismo, ogni più minuta sottigliezza stilistica in un equivalente insuperabile, possono essere rappresentati da questo esempio, preso dal grandioso finale del racconto: «Vecchio scorticatoio, vortice costellato di stelle. Vecchio scorticatoio sotto una volta di pensieri confusi, confuso battito di pensieri coperti di vecchio, vecchio scardinatoio. Pensieri notteriflessi, pensati d’astri: vecchio sbattitoio che offusca le stelle. E nuvole, vecchio fruscio… Vecchio sfiatatoio, battitoio lungo le pietre sotterranee dei greti, picchiettante sulle soglie, sulle rotaie di taglio, sciabolatoio coperto dal chiasso, chiasso di scarnicatoio interrato: vecchio scorticatoio… corticatoio… orticatoio… orticaio… vecchiaio…».