Come onda di marea, i versi di Charles Wright fluttuano, accompagnando la sua passione per la musica, dalle terre amate: Tennessee, Virginia, e North Carolina. A muoverlo sono le «genealogie» di cui ha proposto, in più di cinquant’anni di carriera, la sua personale e scientifica sinossi fatta di aria, acqua, fuoco, terra, metamorfosi, alchimia, etere, verità, bellezza, luce. Come osservava David Perkins in A History of Modern Poetry, «Wright è un poeta dalla ridotta variazione di tono, un poeta dotato di una tecnica e di una intelligenza potenti… di una attenzione onnipresente per la morte e l’eternità, e per quel tenue sentimento sognante e sinistro che aleggia su di loro».

Il suo percorso, ben riassunto in Breve storia dell’ombra (a cura di Antonella Francini, Crocetti, pp. 210, € 16,00) mostra una poesia che ondeggia e danza al cospetto, come dice lo stesso poeta, di un mare che uccide col suo succhio e risucchio, «il suo razzmatazz sulle labbra recise di corallo, le migliaia di minuscole trafitture che zampillano e scompaiono…» In tal modo, le domande di una vita, e di una carriera lunghissima e intensa, sono già contenute nella sequenza Skins (da Bloodlines, 1975), uno scritto giovanile qui incluso nella prima parte del volume italiano: «Dov’è quel granello di sabbia che vide Blake, la stella marina che illumina la via?»

Molti dei testi di Wright potrebbero stare in questo suo aforisma lapidario: «The subject of all poems is the clock… One day more is one day less» (Il tema d’ogni poesia è l’orologio… Un giorno in più è un giorno in meno). La cadenza suadente di questo poeta, con la sua personale metafisica, è ancora ribadita nell’altra, lunga sequenza dal titolo China Trace che, a detta dello stesso Wright, è un «tentativo, o la speranza, di scrivere poesie che somigliano a poesie cinesi, nel senso che danno un’idea del rapporto di un uomo con l’infinitezza, la continuità, l’eternità di ciò che è intorno a lui, e del suo rapporto con questo mentre ci si trova nel mondo naturale». Eccone uno stralcio: «Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge,/ allora risorgeremo, e ci raduneremo/ nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio,// una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo/ fra i rami puntuti e le giunture spezzate dei sempreverdi,/ formiche bianche, formiche bianche e le piccole nervature».

Quella di Wright è molto spesso una poesia dell’astrazione, composta su accumulazioni nominali, metafore spesso manieriste, o allegorie oblique e surreali dentro le quali, come già scriveva Robert Pinsky (The Situation of Poetry, 1976), il punto di vista non viene quasi mai specificato, così che la retorica costruisce il suo teatro, e la lingua si fa esperimento per se stessa. Accade, in particolare, nella seconda parte di questa scelta italiana, dedicata alle poesie della piena maturità, e provenienti dai primi tre dei sei libri composti dopo il 2000 (A Short History of the Shadow, 2002; Buffalo Yoga, 2004; e Scar Tissue, 2006). La stessa curatrice sottolinea come la ricerca stilistica di Wright qui appaia impegnata a elaborare un «livello sempre più alto di musicalità senza abbandonare le sue consolidate ed eleganti maniere espressive e tematiche… Il poeta ora affida all’incorporeità dei suoni l’impossibile compito di vedere oltre gli umani limiti conoscitivi e chiede alla lingua di essere scala all’idea del divino oltrepassando la sua stessa natura per divenire strumento ‘non verbale’ di conoscenza». Nella sua lotta impari con l’inconoscibile, la scrittura di Wright coincide con una ricerca mai soddisfatta di luce, con l’ascensione frustrante a vette sfuggenti.