Dodici anni. Tanti sono gli anni che ha impiegato Wong Kar-wai per portare a termine, anche se solo parzialmente, la sua grande saga dedicata alla costellazione delle arti marziali. Un progetto nato dopo una serie di detour formali e artistici che hanno portato il nome del regista all’attenzione anche del grande pubblico di non-specialisti di cose asiatiche. Con risultati non sempre degni di nota. Basti pensare a Un bacio romantico, mero contenitore dei formalismi del regista che, privati del loro ambiente naturale, risultano ridondanti e tristemente decorativi. D’altronde Wong aveva già raggiunto un punto nevralgico della propria poetica con 2046, visionaria versione remix di In the Mood for Love, nonché opera straordinariamente interessante, ma inquietamente ripiegata su stessa. The Grandmaster, nel corso degli anni il titolo ha perso il suffisso del plurale, si annunciava come un ritorno alle atmosfere wuxia di Ashes of Time, a tutt’oggi il film più celebrato di Wong la cui lavorazione travagliata ha assunto ormai toni leggendari.
Sempre più riluttante ad abbandonare i progetti cui lavora, Wong Kar-wai ha lasciato andare il film lasciandosi aperte varie possibilità di intervenire ulteriormente sul montaggio e la struttura narrativa. Motivo per cui la versione cinese differisce da quella europea mentre quella statunitense, manipolata su indicazioni di Harvey Weinstein, è ancora più stringata. Senza contare che Wong ambisce tuttora ottenere un director’s cut di tre ore.
Inevitabile che in una situazione di questo tipo, la poetica del frammento del regista si alimenti d’una necessità che è a dir poco contingente. I fautori della filologia comparata dovranno quindi necessariamente attendere l’auspicata versione di Wong del film prima di procedere ad esaminare le varie differenze fra i diversi montaggi di The Grandmaster.
Nato a Foshan nel 1893, Yip Man, il personaggio centrale del film di Wong Kar-wai, ha conosciuto negli ultimi anni uno straordinario ritorno di interesse grazie ai film interpretati da Donnie Yen e diretti da Wilson Yip. Se il compianto Lau Kar-leung può essere leggitimamente considerato l’ultimo discepolo del leggendario Wong Fei-hung (1847-1924), in quanto figlio di Liu Zhan, primo maestro di kung fu a essere approdato al cinema, la cui tecnica discendeva da Lin Shin Rong, discepolo prediletto del venerabile Wong, allo stesso modo Ip Man, sifu di wing chun, ha sempre goduto di un rispetto particolare per essere stato soprattutto il maestro di un giovane Bruce Lee fra il 1954 e il 1957.
Giunto a Hong Kong dopo che il partito comunista prende il potere nel 1949, Ip Man decide, per fronteggiare una situazione economica non facile, di aprire una scuola di arti marziali.
Questo è esattamente il punto dove la leggenda e la storia divergono. Ciò che si dimentica quasi sempre è che Ip Man era anche un agente di polizia al servizio del Kuomintang, esponente di una mentalità ancora feudale e rappresentante di valori in aperto conflitto con l’avanzata della storia. La passione antinipponica ha cancellato il debole per l’oppio, permettendo alla sua figura di essere riscritta nell’alveo dei valori cinesi.
Elemento chiave di The Grandmaster è Xu Hao-feng, autore di romanzi di gong-fu pian che insieme a Wong Kar-wai ha scritto la sceneggiatura del film (nonché regista di Judge Archer presentato lo scorso anno al Festival del film di Roma). Ultimo discendente della scuola rivale di Ip Man, rappresentata nel film dal personaggio interpretato Zhang Ziyi (ossia la bisnonna di Xu Haofeng), Xu ha contribuito in maniera determinante a dare corpo allo sfondo storico e politico del film. Ed è grazie a Xu che Wong ha potuto incarnare nel tessuto del suo film i temi a lui cari del tramonto di un mondo e della solitudine di individui giunti al crepuscolo della storia.
Rispetto a Ashes of Time, ipnotico caleidoscopio di esistenze alla deriva, The Grandmaster è come se celebrasse (e abbracciasse) i valori di un mondo (cinese) che non esiste più. Tutto nel film sembra essere toccato da una magniloquenza malinconica che l’uso insistito del ralenti esaspera drammaticamente. Ogni gesto sembra come spostare le linee del mondo; ogni scontro un terremoto che rischia di spegnere il mondo.
Coreografato dal maestro Yuen Woo-ping, un genio visionario del corpo in movimento, il film di Wong Kar-wai sembra come scolpito in una nicchia di tempo sospesa a sua volta in un tempo immobile nonostante il racconto tematizzi l’ineluttabilità stessa della storia.
Con il suo inconfondibile gusto sincretico e sinestetico, Wong Kar-wai riesce ancora una volta a distillare stille di passione autentica da un formalismo tanto sublime quanto autoreferenziale. Esemplare in questo senso il primo combattimento sotto la pioggia. Una danza di silhouette che sembra rovesciare il senso degli aforismi leoniani: quando i cento uomini senza cappello incontrano l’uomo con il cappello, i cento senza sono nei guai. Momento topico, posto in apertura, che rievoca le impari stragi eroiche sopportate dai valorosi di Chang Che, ribaltandone il senso, perché il sangue è già stato tutto versato e non resta che cantare ciò che fu.