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La danza del futuro è un Hermes in volo: Duncan e Graham

La danza del futuro è un Hermes in volo: Duncan e GrahamMarta Graham nel balletto Cave of the Heart, sul mito di Medea, con musica di Samuel Barber: fu eseguito la prima volta nel 1946

Soeciale Classical reception Isadora Duncan (1877-1927) studiava i greci senza alcuna estasi anacronistica, cercando piuttosto la naturalezza dei movimenti e soprattutto la religiosità. Per Martha Graham il ricorso ai classici arrivò nel ’46 (Cave of the Hearth ), influenzato dalla psicoanalisi

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 agosto 2020

«Solo nella danza so dire i simboli delle cose supreme», scriveva Nietzsche in Così parlò Zarathustra. La potenza polisemica del movimento si lega inestricabilmente alla capacità che ha la danza di incarnare emozioni e farle riverberare attraverso i corpi. Danzatore e spettatore – lo dimostra da ultimo anche la scoperta dei neuroni specchio – sono interconnessi da una comunicazione preverbale la cui immediatezza è intimamente rafforzata dall’armonia di ritmo, musica e poesia del gesto. Non stupisce che una forma espressiva così rarefatta, così mistica e sensuale, possa «dire», appunto, «cose supreme». Né meraviglia l’estrema varietà di sguardi, obliqui e per questo non scontati, che la danza offre sull’antico.
Parlare di classical reception coreutica significa anzitutto rinunciare a un testocentrismo preconcetto per intendere invece la cultura classica come un insieme di artefatti e di esperienze perduti sì per sempre, ma le cui tracce – suggerendo, ispirando, suscitando domande – contribuiscono alla creazione di arti nuove. Del resto, se il ruolo dell’antico nella storia della danza, e nella nascita della danza contemporanea in particolare, è stato fondamentale, d’altra parte alcune sperimentazioni sceniche possono essere accostate a studi sulla coreutica antica o a letture coeve di miti classici.
Tra il Settecento e i primi dell’Ottocento il Mito aveva offerto materiale narrativo ai grandi coreografi; parallelamente diversi studiosi avevano iniziato a interessarsi di danze antiche. La vera svolta arrivò con la fine del XIX secolo e coinvolse in modi diversi le biblioteche e i teatri di tutto il mondo: lo illustra bene l’ampio volume di Frederik G. Naerebout La danza greca antica (a cura di Giorgio Di Lecce, Manni 2001), mentre per una lettura più snella e godibile, consultabile liberamente in rete, rinvio all’articolo di Giuseppe Pucci «Per un’archeologia del gesto: la reinvenzione moderna della danza antica» («ClassicoContemporaneo» 2, 2016).
Nel 1896 Maurice Emmanuel, eclettico compositore e musicologo francese che aveva compiuto studi di archeologia e filologia classica, pubblicò a Parigi la monografia sulla danza greca antica che inaugurò il cosiddetto ‘ricostruzionismo’. La sua intuizione ebbe fortuna e il suo metodo è stato recuperato e arricchito nel 1965 dalla storica della danza Germaine Prudhommeau. In base a questi studi, il movimento che manca alle figure umane che atteggiano gesti aggraziati sui vasi antichi si può ricostruire. Secondo Emmanuel, il materiale iconografico classico va combinato in serie analitiche, paragonabili a quelle della cronofotografia, per ottenere così vere e proprie sequenze in movimento. Le posizioni, invece, considerate – non senza qualche forzatura – identiche a quelle del balletto classico, possono essere ricostruite sulla base del ‘principio di necessità’ richiamato da Prudhommeau, per cui ad esempio se si salta in un certo modo si può tornare a terra in una e una sola posizione. Il supporto delle fonti testuali, infine, consente di classificare le tipologie di danza e individuarne i ritmi. Si delinea così una vera e propria grammatica della danza antica, fin troppo bella per essere vera, piuttosto complessa, in alcuni punti discutibile, ma di certo interessante.
I libri, si sa, quando non rischiano di prendere polvere, sono comunque letti dai pochi intellettuali che se li vanno a cercare in biblioteca. Ma la magia che trascende il tempo, incarna l’antico e crea il nuovo, quella avviene sulle scene, dove l’odore intenso del palcoscenico può incontrare i piedi nudi di una danzatrice inquieta e curiosa. È il 1898 e Isadora Duncan arriva da San Francisco a Londra, prima tappa di un percorso che la condurrà a Parigi, Berlino, Firenze, Atene, la Russia. Ogni città è occasione di scoperta, di nuove letture (Platone e Nietzsche), di ascolti musicali (Wagner), di incontri importanti (Karl Federn, Gordon Craig, Stanislavskij), di visite ai musei (folgorante la vista della Primavera di Botticelli). In assenza di videoregistrazioni, solo qualche fotogramma e soprattutto le parole, generose, della Duncan stessa (l’autobiografia My life uscì nel 1927 e fu tradotta in tutto il mondo) aiutano a ricostruire la sua idea di danza; mentre le recensioni degli spettacoli testimoniano lo straordinario carisma, e l’effetto sul pubblico, di questa donna dalla vita tempestosa (amori, viaggi, tre figli finiti tragicamente), il cui mito fu alimentato anche da una morte teatrale: strangolata dal foulard impigliato in una ruota.
Per ragioni diverse, recensioni e autobiografia rischiano però di dare una lettura parziale e sbilanciata del ruolo del mondo antico nell’arte della Duncan, che – così si ritiene comunemente – avrebbe voluto rivivere sulle scene la danza greca in una sorta di estasi e quasi senza percepirne la distanza. Chiarissima, lucida e pienamente consapevole appare invece la danzatrice nel suo manifesto programmatico, Der Tanz der Zukunft («La danza del futuro»), conferenza che tenne nel 1903 a Berlino e che ora si può leggere in una nuova traduzione all’interno del bel volume di Michaela Böhming (La danza libera nel paese del balletto. Isadora Duncan in Russia (1903-1918), Universitalia, 2016). Rifiutati con violenza gli artifici del balletto, il cui tecnicismo innaturale deforma corpi naturalmente belli («un corpo sfigurato e uno scheletro storpiato danzano davanti a voi!»), è necessario «trovare quei movimenti primari del corpo umano» da cui sviluppare una nuova danza, che possa tornare a essere la più nobile e libera espressione artistica del bello.
Questa ricerca di naturalezza accompagnerà l’intera esistenza di Isadora e troverà ispirazione soprattutto nella scultura antica: tra i vari esempi che cita, un Hermes in volo rappresentato «come se fosse la punta del suo piede a poggiare sul vento, evocando con ciò nello spettatore l’impressione di un movimento che dura in eterno». E se la favola che racconta, in cui lei stessa dialoga niente meno che con Demetra, Atena e Zeus, e poi le sue tournée con bambini greci in tuniche antiche sembrerebbero rafforzare quell’idea di un revival delle danze classiche, è in definitiva al futuro che Isadora guarda in una ricerca molto più interiore e spirituale che culturale: «vorrei qui evitare un ovvio fraintendimento. Da ciò che ho detto si potrebbe facilmente dedurre che sia mia intenzione tornare alle danze degli antichi greci (…). Tornare alle danze dei greci sarebbe tanto impossibile quanto inutile (…). Certamente, però, la danza del futuro dovrà ridiventare un’arte sommamente religiosa, come era presso i greci».
L’antico dà linfa al nuovo, restituisce un codice naturale e bello a una danzatrice, e prima di questo a una donna, che vuole stare in armonia e che desidera rendere «i movimenti del corpo il linguaggio naturale dell’anima».
Recuperando l’antico Isadora Duncan distrusse la tradizione di tutù e scarpette da punta spianando la strada a nuovi linguaggi espressivi: nel 1927, anno della sua morte, Martha Graham inaugurò una propria scuola di danza contemporanea. E se per la ricerca del gesto naturale la ‘tecnica Graham’ si limitò, per così dire, alla fisiologia del respiro, il suo ricorso al classico, che arrivò solo nel 1946 con una coreografia ispirata a Medea (Cave of the Hearth), fu influenzato dalla psicoanalisi, con vicende universalizzate rese espressione di sentimenti primordiali. Un indirizzo, questo, ancora oggi prevalente sulle scene (da Cullberg a Neumeier, Walsh e Preljocaj).
Ma la danza dice «i simboli delle cose supreme» (Nietzsche), e allora non stupisce che in La natura delle cose di Virgilio Sieni quattro danzatori e una donna (incarnazione metamorfica di Venere) restituiscano emozioni e corpo ai movimenti degli atomi lucreziani. Cristallizzato dalla danza, l’antico, anche quello che non ti aspetti, si scioglie in un movimento nuovo, oltre il tempo.

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