Il primo week end è «tutto esaurito» da diversi giorni per la proiezione in Piazza Grande di C’era una volta a…Hollywood prevedibile certo visto che ovunque il nuovo film di Quentin Tarantino – nelle nostre sale il prossimo 18 settembre – arriva come una specie di evento magico – e persino salvifico, all’ultimo Festival di Cannes da dove peraltro è ripartito senza alcun premio, sembrava tutto dipendere dagli esiti del montaggio del film al momento dell’annuncio ufficiale del programma ancora in corso.

LOCARNO 72, debutto alla direzione di Lili Hinstin, parigina, che succede a Carlo Chatrian partito a dirigere dalla prossima edizione la Berlinale: cosa è cambiato? Sotto a un cielo basso afoso l’atmosfera è sempre quella locarnese, via vai di gente in cui si confondo i vacanzieri della settimana di Ferragosto e i festivalieri con badge leopardato appeso al collo in cerca di wi fi e conforto, le sedie accatastate il giorno prima di accogliere il pubblico della Piazza, i tavolini dei caffé a prezzi proibitivi specie per quei cinefili con pochi soldi (non svizzeri), le tende bianche riservate a diverse categorie, industry o ospiti vari seguendo la tendenza sempre più comune di separare i ranghi, – per carità che un produttore parli mai con un giornalista!- mentre quella della «Press» è stata invece abolita scatenando molteplici lamentazioni social.

IL PROGRAMMA ha molta Francia – nel Concorso internazionale su 17 titoli nove sono di produzione o coproduzione francese – e molto di quel cinema indipendente che piace poco al nuovo presidente macroniano del Cnc, il Centro nazionale di cinematografia che finanzia per la maggior parte il cinema d’oltralpe, arrivato a definire – sulla pagina del Cnc stesso – «eccessivo» Jean Pierre Mocky (figuriamoci il resto), su cui punta la selezione locarnese anche nella necessità di ritagliarsi uno spazio tra i grandi festival della stagione, prima quello di Cannes e subito dopo la Mostra di Venezia – senza dimenticare il Toronto film festival.

Siamo in Francia sia in Douze Mille, opera prima di Nadège Trebal, che ne è anche interprete in coppia con Ariel Worthalter – senza dimenticare la sempre sublime Françoise Lebrun – che in Merveilles à Montfermeil di Jeanne Balibar, pure lei anche davanti alla macchina da presa, con un cast di molti grandi attori, da Emmanuelle Béart a Bulle Ogier e Mathieu Amalric che per il suo esordio nel lungometraggio sceglie uno stile eccentrico, quasi surreale, in cui una periferia francese col nuovo sindaco liberal si trasforma, almeno idealmente, in un laboratorio per un mondo utopico (o distopico?) boicottato ovviamente da falsi amici e nemici interni.

L’idea, spiega l’autrice nel pressbook si basa sull’osservazione di una politica attuale incapace di cogliere i bisogni, e sempre più distante da essi da ogni parte. La sindaca (Beart) inventa il giorno della Brioche – citazione di Marie Antoinette – e scuole multilinguistiche e però non riesce a tenere sotto controllo la speculazione… Balibar si affida al movimento degli attori, lei per prima, una serie balletti buffi, di coreografie, all’umorismo e alla comicità.

IN «DOUZE MILLE» la storia è quella di un uomo e una donna nella Francia (Europa) di adesso, pochi soldi, disoccupazione, una vita stretta in una stanza dove anche i respiri non hanno privacy e per fare l’amore i due devono mandare gli altri a fare una passeggiata. Lei lavora, paga bassa, dodicimila euro per un anno, lui ha solo lavoretti illegali: lo scoprono e finiscono anche con minacce. Cosa fare? Come arrivare a prendere almeno quanto lei perché la loro storia non finisca?

In questo paesaggio del presente rispetto a quanto potrebbe accadere in un film di Ken Loach – il più ostinato narratore della crisi occidentale – la regista cresciuta alla «scuola» di Claire Simon – con cui ha lavorato in Ça brule (2006) e Les bureaux de Dieu (2008)– utilizza la sua esperienza da documentarista (Casse, 2013; Bleu Petrole, 2012) per infondere realtà nella sua storia e insieme scommette su direzioni impreviste.

Al centro mette la relazione tra i due protagonisti che certo il precariato condiziona nel movimento esistenziale ma quell’erotismo intenso, bruciante, quasi uno stare al mondo in esclusiva nel desiderio reciproco – con una magnifica scena d’amore che su schermo è una rarità – diviene il punto di partenza con cui infondere fisicità al racconto.

Anche quella di Trebal è un’immagine in cui la grana della messinscena è quella di corpi nello spazio, smarriti, in conflitto, stridenti, operai sottoposti al ricatto delle agenzie interinali laddove la solidarietà di classe nessuno la ricorda più, in una violenza resa più forte dalla costruzione (tutta politica) di ipotetici nemici, di instabilità e economie sempre più divise: alto/basso. Più viscerale, più sensuale, più messa a nudo.

RIMANE la possibilità di un incontro, qualcuno che ancora guarda, qualcuno con cui condividere un po’ di vita, in una dimensione orizzontale in cui denaro, sfruttamento, dominati e dominanti si mischiano senza più limiti. I due provano a spostare il proprio centro altrove, in quella libertà surreale che ancora una volta sono i gesti, strane danze, passi asimmetrici di un musical obliquo a dichiarare. E nella «linea» francese di film sull’oggi Trebal inventa una sua personalissima forma, in cui il nostro tempo si rivela e insieme si fa cinema.