Il BIPOD (Beirut International Platform of Dance) è giunto alla sua 12ma edizione con un calendario fitto di spettacoli e dibattiti, dal 13 al 30 aprile, nella capitale del Paese dei Cedri. E al suo interno è proprio il Moultaqa Leymoun, il «limone», la parte del festival più aspra e dolce. Quattro giorni di spettacoli e incontri con artisti arabi provenienti da tutto il Medio Oriente, con estensioni verso Tunisia ed Egitto a ovest e Iran a est. Proprio da questo paese dove controversa è l’idea del corpo e dei suoi derivati, dove la danza è vietata ma non l’arte del movimento, che su un tappeto steso sul palco del teatro Beryte è andato in scena Zafran del gruppo NaHa, un triplice intrigo di musica e danza che ha saputo restituire il concetto di tempo inteso come ritmo e durata, vibrazione visibile ma anche motore invisibile dei corpi in attesa di esprimersi.

A seguire Traces of absence della libanese Ghida Hachicho, assolo tessuto attorno a un unico tema che avvolge corpo e spazio sui suoni dal vivo di un darbuka essenziale e discreto. È Beytna (la nostra casa), l’ultima creazione di Omar Rajeh, presentata per due sere consecutive con artisti provenienti da diversi contesti culturali (Africa, Europa, Giappone e ovviamente Medio Oriente) sulle coinvolgenti musiche dei tre fratelli palestinesi Joubran, virtuosi di oud accompagnati da un versatile percussionista, anch’egli palestinese, Youssef Hbeish, a rendere l’intento che muove e istruisce fin nei minimi dettagli il progetto del Maqamat Dance Theatre: formazione dei giovani locali, residenza per artisti della regione, festival di incontro tra compagnie arabe e dal resto del mondo.

Un’idea che vuole radicarsi in un luogo da cui spesso si parte, ma dove si può anche tornare. Come per Charly Prince, performer libanese plastico ed elastico, ormai in Canada in seguito alla guerra del 2006, in cerca di un luogo per la sua identità di persona e danzatore. Ma il Maqamat è la speranza anche per altri che decidono di non partire. Come il danzatore palestinese Sharaf dar Zaid, che nella sua nuova creazione Double Bill dispensa un’irresistibile energia contemporanea con momenti di tradizione rivisitata in forma impeccabile. Ospiti anche le siriane Hoor Malas e Nura Murad, docenti del dipartimento di danza del Conservatorio di Damasco. dove, nonostante la guerra, le lezioni e i loro progetti proseguono, perché la creatività non si arresta sotto le bombe. Allora «danza e attivismo» è il filo che conduce i dibattiti mattutini e pomeridiani moderati da Simon Dove, educatore indipendente da New York. Un incrocio di testimonianze di artisti, operatori culturali, giornalisti, attivisti politici su come il corpo e la danza possano rappresentare una forma di resistenza, che sia alla corruzione, al malgoverno, alle dittature, alla globalizzazione.

Non mancano nel cartellone compagnie internazionali come il Culbert Ballet dalla Svezia e l’Akram Khan Company dal Regno Unito, dalla Svizzera Guilherme Botelho, coreografo che mescola i danzatori del suo gruppo Alias con giovani talenti arabi per Sideways rain, una produzione che ritroviamo sempre in questi giorni al Surryett Ramallah, festival internazionale della danza contemporanea che si svolge nei Territori Occupati. Chiudono la rassegna l’italiano Alessandro Sciarroni con il delirante I will be there when you die e Quartet del tedesco Raimund Hoghe, già drammaturgo alla corte del Tanztheatre di Pina Bausch.

Tutto si mescola qui a Beirut nel BIPOD, come nella cucina di Beytna, perché, riprendendo il titolo di un piccolo capolavoro di essenzialità messo in scena dalla coreografa libanese Danya Hammoud, «mes mains sont plus agées que moi» (le mie mani sono più vecchie di me).

A muovere queste mani c’è tutta l’energia di Omar Raejeh, direttore del Maqamat, e la passione di Mia Habis, direttrice artistica del Festival, che insieme hanno saputo anche attrarre operatori da tutto il mondo per dare visibilità agli invisibili artisti del Medio Oriente, la cui resistenza è tutta lì concentrata nei corpi e nello spazio della loro danza.