«Chi vorrebbe mai vedere un film sulle dighe?» si chiede Travis Rummel regista insieme a Ben Knight di DamNation, in concorso al Trento Film Festival. Gioco di parole tra «dannazione» e «il paese delle dighe» (Dam in inglese) il film indaga proprio la dibattuta presenza di queste costruzioni nel Paese che ne è tra i più ricchi al mondo, l’America, e soprattutto il crescente movimento per la loro rimozione. «In un primo momento Ben ed io eravamo scettici rispetto a questo progetto, pensavamo che sarebbe stata una sfida troppo grande. Così abbiamo detto di no». Ma la proposta arrivava da due famosi ambientalisti, Yvon Chouinard e Matt Stoecker, con cui i registi avevano lavorato in precedenza. E il momento era quello giusto: a breve sarebbero state demolite due grandi dighe dello stato di Washington, sul fiume Elwha e sul Columbia, il cuore dell’ecosistema dei salmoni che dal mare risalgono i fiumi per riprodursi. «Rifiutare una storia ambientalista a cui Yvon e Matt si erano così appassionati ci sembrava sbagliato – spiega Rummel – Inoltre quando abbiamo iniziato a girare, nel 2011, stava per cominciare il più grande processo di rimozione delle dighe nella storia degli Stati uniti. Nei tre anni di lavoro abbiamo visto svariati corsi d’acqua tornare alla vita davanti ai nostri occhi; così da scettici quali eravamo abbiamo iniziato a credere nel potenziale della rimozione».

Utilizzate come fonti di energia idroelettrica queste monumentali creazioni dell’uomo sono contestate perché distruggono l’ecosistema di un fiume, e se in passato erano viste come l’emblema della capacità dell’uomo di piegare la natura, oggi testimoniano la fallacia di questa presunzione: hanno causato danni quasi irreparabili all’ambiente, e i loro costi sono più alti di quanto non producono. «Le dighe provengono da un altro tempo, quando si perseguiva lo sviluppo e la conquista della natura a tutti i costi – dice ancora Rummel – In molti casi l’impatto culturale e ambientale non veniva nemmeno preso in considerazione nella costruzione degli impianti. Dovevamo dotare il West dell’elettricità e irrigare il deserto. Solo ora cominciamo ad accorgerci dei costi reali della folle corsa alle dighe nel periodo tra gli anni Quaranta e Settanta».

E tuttavia la domanda che si poneva al principio Travis Rummel resta problematica: oltre a costituire un buon pamphlet ambientalista, e testimoniare un momento di passaggio, qual è l’interesse di un film sulle dighe? Nel caso di DamNation, come spesso accade, la risposta è tra le righe di ciò che vediamo sullo schermo. La «corsa alle dighe» testimonia qualcosa di più recondito e profondo del rispetto per la natura o della contraddizione tra questa e la tecnologia. È l’eterno riproporsi dell’ossimoro al cuore dello stesso immaginario americano, quello che il western ci ha insegnato a vedere come l’opposizione di Deserto e Giardino, tra civiltà e wilderness, l’uomo che si fa largo nella natura selvaggia sulle ali di un «Destino Manifesto» o del sogno americano. Ma che si tratti della ferrovia che univa la costa atlantica al Pacifico, dell’olio nero del Texas, delle dighe o dei trattati con gli indiani, ogni progresso del giardino nel deserto ha il suo oscuro risvolto della medaglia. Secondo Travis Rummel «è una coincidenza» che la Damnation a cui fa riferimento il titolo del suo film sia l’opposto della «Deliverance», la «salvezza»- di cui parla ad esempio il film di John Boorman – da noi tradotto come Un tranquillo weekend di paura. Lì proprio la costruzione di una diga su un fiume dell’Appalachia forniva il pretesto ai protagonisti per fare un’ultima escursione in canoa sull’acqua incontaminata, i cui mostruosi abitanti avrebbero messo a dura prova l’allegra scampagnata. Le contraddizioni che John Boorman trasfigurava in una trama orrorifica sono lontane eppure vicine a quelle che si intravedono appena in DamNation, dove gli agguerriti sostenitori delle dighe elogiano l’addomesticamento del deserto e della natura ottenuti attraverso la loro presenza, e biasimano il ritorno al passato che una demolizione comporterebbe.

Rummel non la pensa così: «L’era della costruzione di dighe su larga scala è decisamente alle nostre spalle, e credo che sia in corso un grande cambiamento nel modo in cui la nostra società vede la natura. La rimozione di queste opere è una grande manifestazione fisica di come è cambiato il rapporto tra uomo e ambiente: ci stiamo finalmente accorgendo della sua importanza e di quella di un ecosistema funzionante. Sono convinto che sia un passaggio generazionale: la nostra generazione e quelle future non sentono il bisogno di conquistare la natura. Il vero valore economico e spirituale sta al contrario nel preservarla e riportarla alla vita».

Effettivamente, le sequenze più suggestive del documentario sono proprio quelle che ci consentono di assistere al rinascere di questa vita dove prima era scomparsa, al ritorno dei pesci e dell’acqua azzurra dove prima scorreva il fango portato a galla dalle demolizioni. Ma sarebbe ingenuo pensare di aver sconfitto una contraddizione antica appunto come l’America stessa, o di poter cancellare il passaggio del conquistatore.