La fotografia è una scrittura di luce che scava nell’ombra». Per Giorgia Fiorio (Torino 1967) non è mai rappresentazione ma evocazione. «La luce mette in relazione assenza e presenza. C’è un tempo dentro e un tempo fuori che si sovrappongono, come il nostro respiro che entra ed esce. La visione è il rovescio del respiro».
Nel proporre possibili interpretazioni dell’enigma, stimolando la partecipazione individuale dell’osservatore al disvelamento, fotografare con la pellicola in bianco e nero (e un’attenzione rigorosissima alla stampa) è per lei un passaggio essenziale, proprio per le caratteristiche specifiche di questa tradizionale tecnica/linguaggio nell’intercettare l’esperienza sensibile attraverso suggestioni emotive.

IL CONFINE TRA REALE e apparenza è centrale nella ricerca di Fiorio fin dai primi lavori, realizzati negli anni Novanta, dopo aver studiato all’International Center of Photography di New York (dove tornerà da docente tra il 2007 e il 2015), accantonata la carriera musicale e cinematografica. Si tratta di progetti a lungo termine come Uomini (1990-2000) sulle comunità maschili nella società occidentale, per proseguire con Il Dono (2000-2009) in cui viene affrontato il tema del mistero dell’esistenza in rapporto alla spiritualità, attraverso la dimensione fisica di forme, espressioni di rituali diversi, tra purificazione e sacrifici, offerte e ringraziamenti. Un lungo cammino intrapreso dall’autrice compiendo numerosissimi viaggi alla ricerca di qualcosa di invisibile.
Un nucleo di queste immagini è riproposto nella mostra personale In Uno. Opere 2000-2020 alla galleria del Cembalo a Roma (fino al 26 settembre), accanto alle stampe a pigmenti di carbone della serie Humanum. L’archeologia dell’Essere (iniziata nel 2011 e tuttora aperta), presentata in anteprima in occasione della rassegna La Dama di Warka e l’archeologia dei significati all’Iraq Museum di Baghdad nel 2017.
Tutto ebbe inizio nell’estate 2010, quando Giorgia Fiorio – di passaggio ad Atene – fece la sua consueta tappa all’Acropolis Museum, provando una rinnovata emozione nell’incontro con l’antico. «Ho girato per le sale, ho proseguito, poi sono tornata indietro e, nell’osservare insistentemente ciò che mi aveva colpito, sono ripassata davanti alla stessa statua. Mi sembrò si muovesse. Ovviamente non si era mossa fisicamente, però ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di vitale come impigliato in quella struttura scultorea. Uscita dal museo, ho continuato a pensare all’accaduto in maniera ossessiva, come quando ci si innamora della persona sbagliata. Finché non ho realizzato: la chiave di tutto era in quel «muoversi», nella dimensione di vivente che albergava nella statua».

TORNATA NEL SUO STUDIO, Fiorio per sei mesi fotografò una scultura moderna (un nudo), sperimentando la diversa percezione del volume attraverso l’interazione luce/ombra. «È qualcosa che non ha niente a che vedere con la rappresentazione di una statua. Semplicemente, la osservi in un’altra maniera e le rovesci addosso la tua stessa vita. La rianimi e lei ti rianima. È una strana dimensione in cui soggetto e oggetto si sovrappongono di continuo. Tra individuo e statua si ristabilisce questa correlazione, una corrente di energia potentissima».

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Lo stesso termine humanum (a cui è affidato il titolo del progetto), vuole «interrogare il principio auto-riflessivo nella percezione del reale e il contemporaneo ribaltamento semantico del rapporto visione-presenza». Dopo aver messo a punto un protocollo per definire il modo in cui intende fotografare – sempre alla stessa distanza, procedendo con variazioni di luce anche minime, misurando lo spostamento apparente con il metodo della parallasse («una sintesi di nove movimenti di parallasse per dodici luci») – Fiorio sceglie una serie di statue e contatta i vari musei che le custodiscono per ottenere le autorizzazioni, supportata nella sua ricerca anche dagli studiosi Carlo Ossola, Victor Stoichita e Lucio Milano. In scala 1:1 fotografa statue arcaiche, grecizzanti, egizie, sumere, tra cui la testa detta di Salt del Museo del Louvre, capolavoro del Medio Regno (proveniente dalla collezione dell’inglese Henry Salt fu acquistata dal museo francese nel 1826 su consiglio di Jean-François Champollion), una testa di riserva rinvenuta nella necropoli di Giza al Cairo (ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna) e le due teste antropomorfe della necropoli di Salamina al National Archaeological Museum di Cipro a Nicosia. La luce mette in relazione assenza e presenza di quei volti androgini, caratterizzati dalla non definizione di genere, età, etnia, «sono archetipi, figure dell’idea del typos umano; prima di trasformarsi in rappresentazione di ciò che esisteva nell’antichità significano qualcosa di invisibile, ovvero la vita».

TRA TUTTI, IL PEZZO più importante è l’enigmatica scultura in marmo bianco della Dama o Lady di Warka (soprannominata la Monna Lisa sumera), rinvenuta a Uruk e risalente a oltre cinquemila anni fa. Giorgia Fiorio non solo ritrae questa testa femminile, ma con emozione la accoglie tra le mani per effettuarne misurazioni e disegni prospettici (basandosi sul trattato di Piero della Francesca) insieme al professor Lucio Milano, docente di Storia del Vicino Oriente Antico a Ca’ Foscari e coordinatore scientifico di Humanum che ha fornito all’Iraq Museum di Baghdad un nuovo piedistallo in materiali sintetici trasparenti, più consono alla visione del capolavoro.
«La Dama di Warka è il simbolo di quello che può significare oggi la scomparsa, la possibilità di tornare a riapprezzare opere del passato che non ci creano stupore perché sono così celebri che neanche le guardiamo più, ma che al tempo stesso sono tutte da scoprire – spiega Milano – Nel nostro sforzo di ristudiare questo pezzo assolutamente unico, lo studio della luce è stato fondamentale sia per l’artista che per me. Questi pezzi erano spesso conservati in luoghi bui, templi e palazzi dove minimi spostamenti di luce facevano sì che la statua del dio fosse un dio che si muoveva. L’idea era quella della divinità presente pur nella sua immobilità. Gli dei dovevano essere accuditi, erano entità con cui si parlava, a cui si offrivano ogni giorno sacrifici e doni in cibo».