A due anni dalla morte di Umberto Eco, il 19 febbraio del 2016, ci piace ricordarlo riportando alla memoria uno dei suoi interventi più ‘politici’: un articolo su Rinascita pubblicato, il 5 e il 12 ottobre del 1963. Un saggio sostanzialmente dimenticato.

Rubricato, quel saggio così importante, come un intervento di critica letteraria. Lui stesso annetteva ad esso una certa importanza se è vero che lo ricordava più volte, l’ultima delle quali proprio nell’intervista a Valentino Parlato per i 40 anni di questo giornale.

L’articolo, un sasso nello stagno delle certezze marxiste, sottolineava l’esigenza, per porre nuove analisi sulla situazione culturale, di considerare come il cambiamento tecnologico mutasse anche la filosofia con cui interpretare la realtà. Ma anche come la dialettica delle forme artistico-culturali (la sovrastruttura) potesse essere autonoma dalla struttura ed interagire con essa, influenzandola. Osservazioni, entrambe, quanto mai attuali, che allora mettevano in discussione alcuni principi intangibili.

Per lo scrittore la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa apriva una nuova stagione ‘tecnica’ per l’umanità, così come l’avvento del telaio meccanico e della macchina a vapore avevano fatto nell’ottocento, provocando lo sviluppo del pensiero marxista; una stagione che implicava «una rivoluzione filosofica». Per Eco il concetto sul quale faceva «leva buona parte della cultura di sinistra in Italia» era ancora «aristocratico-borghese», legato ad una cultura separata e meditativa, per pochi eletti, un concetto entrato in crisi con l’avvento dell’industria culturale. Come correttivo c’era «la vaga speranza» che i valori di questa cultura potessero «diventare un giorno patrimonio anche delle classi subalterne; una ambigua speranza frammista alla paura che questo avvenga davvero, e che di conseguenza i valori si deteriorino. Al polo opposto – scriveva Eco – ai Festival dell‘Unità si suonano i dischi di Rita Pavone», quindi «si riconosce l’esistenza di un altro universo di valori, ma poiché la cultura umanistica ufficiale lo ha declassato come universo di disvalori, non ne viene tentata alcuna reale operazione di acquisizione. L’universo di disvalori viene così utilizzato a titolo strumentale e narcotico», nella segreta persuasione, in fondo, «che l’ideale per il proletariato rigenerato sia una lettura di poeti ermetici».

Non è qui la sede per discutere la complessità del lungo saggio (ripubblicato di recente dall’editore Imprimatur: Umberto Eco e il Pci), diciamo solo che il dibattito che ne seguì ( animato tra gli altri da Ferrata, Spinella, Sanguineti, Gruppi, Althusser) si dimostrò nella sostanza sordo a questi ragionamenti. La stessa Rossanda, cui fu affidato il compito di rispondere a Eco (era responsabile culturale del Pci), riconosceva giusta la critica di Eco laddove «intende metterci in guardia» dalla «assunzione delle forme della coscienza di massa come pura negatività», ma sanzionava severamente il limite di un approccio solo descrittivo alla realtà.

Il punto vero, però, che qui ci interessa sottolineare è come Eco in quell’articolo evidenziasse per la prima volta la contraddizione irrisolta dalla cultura e dalla politica della sinistra nei confronti delle espressioni della modernità di massa: l’uso strumentale della cultura di massa unito all’assoluta incomprensione verso quest’ultima. C’era più in generale un rapporto schizofrenico con i fenomeni dell’industria culturale, da una parte demonizzati perché provenienti dall’impero del capitale, dall’altra mai completamente rifiutati perché comunque popolari.

Banalizzando: non basta andare ogni giorno in tv per cimentarsi con la cultura di massa. Purtroppo è una vecchia, ed errata, scorciatoia che a sinistra si ripresenta ogni qualvolta essa sembra volersi misurare con la modernità.