Un albo illustrato in cui l’io narrante e autore Mario Boccia – fotoreporter, collaboratore e inviato de il manifesto – non compare mai. Questa volta ha lasciato la macchina fotografica per narrare una storia con le parole e nelle tavole illustrate lui si vede sempre e solo di spalle: così, anche in questo caso, è comunque il suo sguardo che tesse il racconto, lasciando che l’occhio che legge resti assolutamente libero di vagabondare, riflettere e tentare di comprendere l’incomprensibile della guerra. E le illustrazioni, dense di colori, di volti e di fiori, di Sonia Maria Luce Possentini, restituiscono come in uno specchio la vicenda dell’incontro raccontato in La fioraia di Sarajevo (edito da Orecchio acerbo, pp. 40, euro 16) . «Ma un fiore è serbo, croato o musulmano?», si domanda Boccia in conclusione del racconto ma, in realtà, comincia tutto «un giorno di febbraio del 1992, nel mercato di Bascarsija, scrive l’autore.
Il mercato è l’anima di una città, luogo di acquisti di cibo e di vestiti ma anche teatro di incontri, di scambi di fiori e di sguardi. È così che Boccia incontrò una venditrice di fiori. La donna aveva uno sguardo forte e magnetico – restituito anche dai disegni di Possentini – e il fotografo le rivolse «la domanda più stupida, chiedendole quale fosse la sua etnia. Mi rispose subito: ’Sono nata a Sarajevo’. Credendo di essere furbo, le chiesi quale fosse il suo nome. E lei mi disse qualcosa che annotai su un foglietto». Solo dopo scoprirà che cujecàra significa fioraia, «avevo ricevuto la prima lezione».

La fioraia senza nome di Sarajevo – uscita dall’anonimato grazie al racconto di Boccia – si sottraeva alle divisioni etniche e religiose imposte dalla guerra. Diceva semplicemente no a chi voleva toglierle la libertà di dirsi cittadina di Sarajevo per incollarle addosso appartenenze che non le appartenevano.
Passa il tempo e Boccia torna al mercato di Bascarsija. La ritrova: «Era dimagrita molto, come i fiori che vendeva. Quelli non erano più fiori veri ma piccoli mazzetti di fiori di carta…Trovavo sorprendente che lei fosse lì a venderli, ma anche che qualcuno potesse pensare di comprarli».

I fiori di carta sono spesso patrimonio dei poveri, di chi deve reinventarsi un mestiere, di coloro che girano il mondo con poco bagaglio. Passano ancora gli anni, Boccia torna a Sarajevo, segue i 1395 giorni dell’assedio della città, quattro anni. Manca il pane, l’acqua, le medicine e l’elettricità ma, sempre più smagrita, la fioraia resta al suo posto al mercato a vendere fiori di carta, di grande bellezza. A un suo ritorno però il banco è occupato da altri; di lei non c’è traccia. I cartelli che campeggiano in città – «pazi snajper – attenzione ai cecchini» – non sono evidentemente bastati a proteggerla.
«Seconda lezione – commenta l’autore – se non lasci alla guerra il potere di cambiare la tua identità e il tuo ruolo, allora hai vinto. Se muori, almeno sei rimasta quella che hai scelto di essere, perché l’identità è una scelta, non una casualità anagrafica, e sei riuscita a difenderla».

Così ha fatto la fioraia di Sarajevo, città simbolo per secoli di una convivenza pacifica di religioni etnie e culture; dove moschee, sinagoghe, chiese ortodosse e chiese cattoliche erano costruite una accanto all’altra. Prima che la guerra volesse che ciascuno diventasse una cosa sola, ma dove, costretta a scegliere, la fioraia di Boccia dice di sé solo che è nata a Sarajevo. E «solo a Sarajevo – scrive Boccia nelle righe che concludono – morirono 11.541 persone. In maggioranza civili e, tra loro, più di mille bambini».
«La storia che avete letto – conclude – è accaduta in una città uguale alle nostre e da cui ci separa un braccio di mare: Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina. Il 6 aprile del 1992, a dieci mesi dallo scoppio della guerra nell’ex-Jugoslavia, la città fu aggredita e assediata».
L’anonima fioraia di Sarajevo racconta a bambini, ragazzi e adulti, il senso potente dell’autodeterminazione di un’identità che fugge l’imposizione etnica, religiosa e sceglie un’altra idea di cittadinanza e di umanità. Una storia degli anni Novanta terribilmente attuale.

 

SCHEDA

Prime letture

Per conoscere un personaggio è necessario – sostiene Chicca Cosentino ne La folle corsa del piccolo Achab, Torri del Vento edizioni, 16 euro – saperne l’infanzia, «se sapremo com’erano bambini – così il testo – diremo, allora di averli conosciuti». L’albo, con le bellissime illustrazioni di Roberto Speziale, indaga così sui primi anni del piccolo Achab. Ma Achab – non ancora capitano – ha negli occhi «fiori e lampi, il dolore presto è aguzzo, i suoi passi sono inciampi»: la sua mamma è una piccola isola e il suo papà è il mare. Unica amica che lo accompagna è la sua ombra. Achab e la sua ombra hanno mille pensieri e lui tiene sempre con sé una lampada per non lasciarla andare via. Achab stringe così l’ombra per non cedere allo spavento ed è proprio in questa attenzione alla paura, ai pensieri bui dei più piccoli, che il libro offre il suo contributo più originale: «L’ombra era la sua parte migliore: dei sogni e i desideri il motore». Solo allora la storia di Achab diviene davvero una grande epopea di mare e di ricerca ma, svincolandosi dall’originale, per Cosentino e Speziale «la balena lunare conserva la luce, la tiene con sé e nuota veloce».
Un volume da leggere ad alta voce per cercare le rime sghembe e quelle saltate in un libro che promette il viaggio come destino. (l. ta.)