Alla guida del contingente inviato in Kazakhstan il Cremlino ha messo il colonnello generale Andrey Serdykov. Il suo nome si trova in ogni singola campagna che l’esercito russo ha portato a termine negli ultimi venticinque anni. Serdyukov ha partecipato al confronto con le forze Nato all’aeroporto di Pristina nel 1999. Ha combattuto due guerre in Cecenia. È stato uno degli uomini chiave nei mesi di massima tensione in Ucraina, dal passaggio della Crimea alla Russia agli scontri nel Donbass.

E ha guidato, per cinque mesi, nel 2019, i soldati impiegati in Siria contro i terroristi islamici. Oggi Serdyukov è al comando delle truppe aviotrasportate. Insomma, la Russia ha scelto un ufficiale navigato per impedire che i disordini di Almaty raggiungano la capitale, Astana, e da lì attraversino magari i confini kazachi.

I russi in Kazakhstan sarebbero circa tremila, anche se il governo non ha fornito numeri ufficiali. Per quanto se ne sa, appartengono alla 45esima brigata speciale. Hanno ripreso lo scalo di Almaty e sorvegliano installazioni strategiche. «Tutti i nostri militari hanno ricevuto un addestramento speciale e hanno esperienza di combattimento», ha detto un portavoce della Difesa.

Per comprendere ancora meglio le dimensioni dello sforzo, basti pensare che i russi hanno destinato all’operazione settanta aerei da trasporto Ilyushin 76 e cinque Antonov 124. Il contingente si muove nel quadro dell’Organizzazione per il Trattato della sicurezza collettiva, o Csto, che la Russia ha fondato, nel 1994, e di cui fa ancora parte assieme ad altri cinque paesi dell’area post sovietica: Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzystan e Tagikistan. Tutti hanno risposto positivamente alla richiesta di soccorso avanzata mercoledì dal presidente kazaco, Kassim-Jomart Tokayev, a ventiquattro ore dall’inizio delle violenze.

La missione sta sollevando le proteste dell’Amministrazione americana e delle principali cancellerie europee. A Bruxelles l’Alto rappresentante della Politica estera dell’Unione ha parlato apertamente di «situazioni già viste che andrebbero evitate». La Casa bianca ha fatto sapere che «monitorerà la situazione dei diritti umani» nel Paese, in un momento in cui, peraltro, gli Stati Uniti affrontano forti interrogativi sulla scena internazionale proprio sul loro ruolo nella violazione dei diritti umani.

Per il Csto si tratta in ogni caso del primo, vero, intervento materiale, nonostante il gruppo abbia venticinque anni abbondanti di esistenza alle spalle. Eppure dentro i confini del Csto le crisi sono notevoli. Dal Caucaso meridionale, segnato di recente dal conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabakh, al pericoloso bordo afghano, lungo il quale è sempre alto il pericolo di infiltrazioni islamiste. Per nessuno di questi conflitti il Csto ha stabilito un contingente.

E lo stesso vale per le decine di scontri, limitati nel tempo, ma comunque violenti, che l’alleanza ha vissuto. Con il Kazakhstan l’atteggiamento è mutato improvvisamente.

Su questa organizzazione il Cremlino ha sempre esercitato uno speciale controllo, il che dipende dal grado di preparazione delle sue truppe e dalla posizione di primato che la diplomazia russa ha mantenuto verso i vicini.

Così nel 2010, durante gli scontri di matrice etnica che hanno fatto decine di vittime al confine tra Uzbekistan e Kyrgyzystan, l’allora capo del Cremlino, Dmitri Medvedev, si è opposto alla richiesta di aiuto avanzata al Csto dalle autorità di Bishkek per mettere fine ai disordini. «Il compito dell’organizzazione è difendere i nostri paesi da aggressioni esterne – le parole usate da Medvedev – ma qui si tratta di affari interni». Proprio a «influenze esterne» e «combattenti addestrati in paesi stranieri» ha fatto riferimento Tokayev nei suoi appelli alla nazione.

Si direbbe che gli alleati del Csto abbiano preso da subito per buona la sua versione dei fatti. Ma sono i tempi scelti dal presidente kazaco ad alimentare i sospetti sull’origine di una crisi cominciata senza segnali di avvertimento e arrivata subito a un livello di violenza che non ha precedenti nella storia, pur complessa, del Kazakhstan. Da Nursultan sono fuggiti nelle ultime ore l’ex presidente Nazarbaev, il padre della patria che ha dato il nome alla capitale, assieme alla maggior parte del suo clan.

Secondo rapporti credibili agli arresti sarebbe finito uno dei nipoti, Samat Abish, che aveva un ruolo di primo piano nell’Intelligence. A settori dei servizi segreti vicini a Nazarbaev è addebitato un ruolo nelle violenze di piazza. È possibile che il fuoco della rivolta in Kazakhstan sia il risultato di uno scontro per il potere fra queste due fazioni, un tempo alleate. E che i paesi del Csto, Russia in testa, abbiano deciso di assecondare la transizione.